L’arte dell’Africa moderna

I maestri ci sono e sono quotati; gli allievi ci sono, crescono in fretta e i musei se li contendono: originali, preparati, orgogliosi. Ecco che cosa dipingono e cosa scolpiscono i nuovi protagonisti

 

I maestri (venerati dai critici, certificati da galleristi) ci sono già. Sono il ghanese El Anatsui (1944) che con i suoi arazzi fatti con materiali di recupero (lattine di alluminio e tappi multicolori schiacciati, appiattiti, ricuciti) dimostra come si possa rielaborare la tradizione (il suo Zebra Crossing 2 del 2007 è stato venduto da Sotheby’s nel 2019 per 1.273.267 euro, più del doppio rispetto alla stima di partenza). Sono il fotografo maliano Malik Sidibé (1936-2016), primo artista a vincere nel 2007 il Leone d’Oro alla carriera alla Biennale di Venezia (17 mila euro nel 2018 da Christie’s la sua Nuit de Noël del 1963, quasi tre volte la valutazione base). Sono la nigeriana (oggi trapiantata a Los Angeles) Njideka Akunyili Crosby (1983), stella dello zombie formalism (per lei si parla già di una sorta di «bolla speculativa»: 1.022.174 euro pagati nel 2016 per Drown del 2012; 2.855.644 euro nel 2018 per Bush Babies del 2016). Maestri riconosciuti sono da tempo William Kentridge (Sudafrica, 1955), Ibrahim El Salahi (Sudan, 1930), l’anglo-nigeriano Yinka Shonibare (1962), tra i più black della Black-British Generation.

L’arte contemporanea africana da tempo sembra essersi lanciata alla conquista del mondo, replicando l’antica fascinazione per maschere e totem che tra fine Ottocento-inizi Novecento aveva colpito Picasso, Matisse, Braque, Derain , Klee, Modigliani o Brancusi (per loro fondamentale sarebbe stata la lettura del saggio di Carl Einstein sulla Scultura negra, uscito nel 1915 e ripubblicato in Italia nel 2016 per Abscondita). Un’arte coloratissima, ancora accessibile (in termini di prezzi) e che rimanda al passato senza idealizzarlo, ma anzi confrontandosi senza paura con la realtà.

Così Hervé Youmbi (Camerun, 1973) realizza il suo Totem 01/01–18 / Baga-Batcham-Alunga-Kota (2018) ispirandosi alla tradizione delle sculture rituali ma utilizzando perline, mastice e silicone; così, sempre nello stesso Cleveland Museum of Art che ha in collezione Youmbi, Kendell Geers (Sudafrica, 1968) con Twilight of the Idols / Fetish (2005) reinterpreta e modernizza la classicità — una classicità comunque mai legata all’idea di antico — delle sculture Nkisi Nkondi.

A Dakar nel 2018 si è inaugurato il museo dedicato alle Civiltà nere (MCN), destinato «a offrire a tutta l’Africa un nuovo scrigno per custodire opere trafugate che ora le ex potenze coloniali dovrebbero restituire o prestare». Un museo nato da un’idea del primo presidente del Senegal, il poeta Léopold Sédar Senghor. Un museo panafricano (alla stregua dello Zeitz MOCAA di arte contemporanea aperto a Johannesburg, Sudafrica, nel settembre 2017) chiamato a diventare un punto di riferimento per far conoscere la storia culturale del continente, far emergere la sua identità artistica e il contributo dato all’umanità. Ci sono musei che guardano alle «radici» dell’Africa, musei diversi che impongono nuove attenzioni e nuove consapevolezze: così il Museo reale di Tervuren, alla periferia di Bruxelles, considerato il più grande al mondo con i suoi 120 mila oggetti, dopo il riammodernamento del 2018 sceglie di raccontare anche la storia coloniale in tutta la sua violenza.

Una storia che, rielaborata, si ritrova poi nei lavori degli artisti di punta della New Wave d’Africa: Chéri Samba (Congo, 1956); Omar Ba (Senegal, 1977); Abdoulaye Konaté (Mali, 1953); Massinissa Selmani (Algeria, 1980); Eddy Kamuanga Ilunga (Congo, 1981); Pascale Marthine Tayou (Camerun, 1966); Romuald Hazoumé (Benin, 1962); Kudzanai Chiurai (Zimbabwe, 1981); Meschac Gaba (Benin, 1961). Una storia di successi e di riconoscimenti coniugati anche al femminile (perché l’arte africana contemporanea sembra concedere molto spazio alle donne): Tracey Rose (Sudafrica, 1976); Aida Muluneh (Etiopia, 1974); Sokari Douglas Camp (Nigeria, 1958); Billie Zangewa (Malawi, 1973); Magdalene Anyango N. Odundo (Kenya, 1950); Zanele Muholi (Sudafrica, 1972); Julie Mehretu (Etiopia, 1970). Una storia che, proprio al femminile, ha contrassegnato i 150 anni di vita del Metropolitan Museum di New York con le quattro sculture di Wangechi Mutu (1972), kenyota trapiantata a Brooklyn.

Consapevoli, preparati, originali, orgogliosi, con studi spesso divisi tra il continente di origine e il nuovo mondo europeo-statunitense, gli artisti africani possono oggi contare su galleristi indigeni che hanno saputo conquistare il mercato internazionale (come Yemisi Shyllon o Sandra Obiago) e su un efficace sistema di fiere di settore (come «Dak’Art» o «Akaa» a Parigi). Un boom iniziato dodici anni fa con la creazione di un dipartimento di arte contemporanea africana da Bonhams a Londra. Poi fortificato da mostre-evento come Beauté Congo nel 2015 alla Fondazione Cartier di Parigi e Art d’Afrique nel 2017 alla Fondation Vuitton, sempre a Parigi. O, più di recente, dal successo di Ghana Freedom, il padiglione nazionale del Ghana alla Biennale 2019 (per molti un Leone mancato) curato da Nana Oforiatta Ayim che proponeva una riflessione sulla storia del Paese dall’indipendenza a oggi (l’allestimento era di David Adjaye, l’architetto ghanese naturalizzato britannico dello Smithsonian National Museum of African American History and Culture di Washington).

Anche l’Italia si confronta con l’Africa: gli Uffizi ogni sabato di luglio mettono su TikTok i quadri della collezione «con personaggi black», dal Perseo che libera Andromeda di Piero di Cosimo all’Adorazione di Albrecht Dürer. Mentre il Madre di Napoli commissiona a Temitayo Ogunbiyi, artista che vive e lavora a Lagos, la creazione di uno spazio di gioco (visibile fino al 2 novembre) fatto di sculture interattive disegnate ispirandosi alle tecniche africane di acconciatura e all’itinerario tracciato da Google Map tra Lagos e Napoli.

 

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