Pare che abbia esaurito tutti i contrari nell’eco di un’esistenza sottile come una fiala. René Daumal passa dal gioco all’estremismo spirituale, dalla droga all’estasi, dal caos al panico in una catastrofica catabasi, tentando tutti gli altri mondi possibili, dentro e fuori di sé. Nato nelle Ardenne, nel 1908, fonda “Le Grand Jeu”, con Roger Vailland e Roger Gilbert-Lecomte, perseguendo la ‘sregolatezza’ profetizzata da Rimbaud; sa che “esiste l’altro, l’aldilà, l’altro mondo, una sorta di altra conoscenza”. Attraversa, con vigore sonnambulo, i fondamentali del secolo: gli è maestro Alain, incontra Simone Weil, traduce Hemingway. Alexandre de Salzmann, l’uomo determinante, l’artista derviscio, gli fa da apripista per l’incontro di Gurdjieff, di cui è discepolo, non per forza disciplinato. Il volto, man mano, svasa nel diafano: in una fotografia del 1932 Daumal è sdraiato sul tetto di un ripostiglio, crocefisso a contrario, con gli occhi chiusi, la moglie Vera, dal basso, cerca di sorreggerlo; in un’altra ha il corpo di bellezza pietrificata, in montagna. Tutto, sempre, è ascesa; scalare è l’apice dell’opera, tensione verso il senza respiro; la letteratura ha scale, scantinati, precipizi.

Muore giovane, Daumal, a 36 anni, in rue Monticelli, a Parigi, nel 1944, quasi prefigurando la santità, istituita dal libro postumo, incompiuto, Il Monte Analogo, che ammette ogni più furibonda esegesi – purché sia, appunto, fuori, foriera di smarrimenti. Il libro che sta nel sacrario della letteratura del secolo scorso, è pubblicato da Gallimard nel 1952; la ‘quarta’ ha la firma di Roger Nimier, scrittore di tensione estenuata, regale lancillotto degli ‘Ussari’, morto, nel ’62, sulla sua Aston Martin, in poderoso schianto.

“Ogni mitologia racconta di un centro originario del mondo, o di un albero, che dalla terra si eleva perforando il cielo, o di una montagna sacra: in ogni caso, di una possibile comunicazione con l’aldilà. Tuttavia, l’immaginario deve essere reale: l’albero o la montagna devono esistere, proprio come l’Everest o il Monte Bianco. Questo è ciò che pensa il protagonista del romanzo, che organizza una spedizione alla scoperta del Monte Analogo… Naturalmente, personaggi e circostanze del Monte Analogo sono simbolici: così agisce la letteratura quando vuole essere utile all’uomo. Ogni frase ha la nitidezza dell’ascesa. Ciò si deve alla singolare intelligenza di René Daumal, a quello che potremmo definire il suo lirismo dell’ironia”.

Per festeggiare i settant’anni dalla pubblicazione di quel libro seminale, Gallimard sta pubblicando una edizione commentata, con documenti, de Les Monts Analogues– illustrata, aristocratica, cartonata, cara. La prefazione è di Patti Smith, affiliata a Daumal: ha detto di averlo letto nel 1971, che gli ha dato una scossa portentosa, una specie di conversione; intorno al Monte Analogo, lo scorso anno, ha ideato un disco, Peradam.

“Era arrogante come un punk, ma era pure un umanista, immerso nella spiritualità. Come Rimbaud e Artaud, conosceva il mistero della bellezza”.

Il crisma, qui, così pare, è quello di una religione letteraria, del carisma dell’io più che del rito, del benessere alieno all’obbedienza, dell’antidogmatismo ideologico, dell’inchino al pop. Daumal restò un cercatore. Da noi, è il cardine mistico del catalogo Adelphi, l’ombelico bibliografico: Claudio Rugafiori ne cura le opere dagli anni Sessanta; Franco Battiato è stato un non disattento lettore.

Pochi mesi prima di morire, Daumal scrive a Jeanne de Salzmann, allieva ed erede di Gurdjieff:

“Il lavoro è sempre più un lavoro “dentro me stesso” più che un lavoro “per me stesso”. Le soddisfazioni più grandi, ora, sono gli istanti in cui osservo l’elemento “personale” farsi meno forte. È difficile da spiegare, ma oggi sento con estrema chiarezza che “io sono” è l’esatto contrario di “io, me, mio”.

L’anno prima, su un numero speciale di “Fusées”, la rivista stampata da Robert Laffont, dedicata alla “Sincérité”, Daumal scrive una Lettre sur l’art de mentir, che qui traduciamo. Mentire: sovvertire il vero in verità, l’ipocrisia in audacia. Infine, si ascende solo precipitando.

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L’arte della menzogna

Ho promesso sconsideratamente di collaborare a questo numero speciale di “Fusées”, quindi sono obbligato a farlo perché la mia promessa è stata sconsiderata – se uno ha deliberatamente promesso, supponendo i possibili inconvenienti, non è un grosso problema desistere, ma una promessa avventata è cosa sacra, dunque istruttiva. Dico che la mia promessa è stata sconsiderata perché l’idea che sta alla base di questo numero speciale, se provo a pronunciarne il nome, cioè a fare quel rumore convenuto con la bocca quando siamo animati da questa idea, o se tento soltanto di alludervi, mi sento come un’aringa a cui vada di traverso una spina; piange con entrambi gli occhi tutta l’acqua del mare – i pesci gridano così, a differenza nostra: l’acqua amara entra di forza attraverso gli occhi rotondi, a destra e a manca, e vi ruscella dentro fino alla vescica natatoria – e non importa quanto uno pianga e le branchie si dibattano, comunque non può inghiottirla né sputarla, la spina.

Ma perché ho fatto questa promessa sconsiderata? Probabilmente la mia testa era sonnambula e il cuore è stato rapito dal calore con cui due amici hanno messo in moto questa attività e mi hanno chiesto di fare il mio. Mi direte che la testa non è tenuta ad eseguire le promesse contratte dal cuore, che non le devono riguardare, e viceversa, non più di quanto le membra debbano mantenere le promesse dello stomaco, ma io devo rispondere: dipende! Se accettiamo il fatto che esista una giustapposizione tra testa, cuore, membra, stomaco e tutto il resto, d’accordo, faremo giuramenti da ubriaconi. Ma se vogliamo predisporre questo edificio a ricevere un giorno un castellano, allora ciascun servitore deve rispondere degli altri, senza esservi obbligato, ma come anticipando l’ordine e la presenza del signore. Quindi, manterrò la promessa che ho già iniziato a mantenere, senza illudermi.

Dunque, ora, preso per la gola. Non posso parlare né tacere. “Taci e parla!”. Ma come? Bisognerebbe far tacere in me tutte le voci particolari, che chiedono di parlare, e nel grande silenzio quella che è ancora un buco nero nel caos, la più debole delle cose deboli, la più nuda e disarmata delle cose nude e inermi, che direbbe una parola in grado di capovolgere l’universo come un guanto.

Non posso. Non so.

Tutto ciò che posso fare oggi è agglutinare la mia memoria e mettere per iscritto le nozioni che ho ricevuto, dopo le mie letture, sull’arte di mentire. Ovviamente, i precetti che ho annotato in questo modo non costituiscono una formula completa, e potrei allinearli in modo inesatto. Questa è una bozza, che tutti possono perfezionare.

Da ciò che ho letto dai migliori autori, dai peggiori e dai mediocri, l’arte di mentire è una strada a doppio senso. C’è la strada maestra e la scala di servizio.

Ecco alcuni precetti essenziali sulla via maestra dell’arte di mentire:

1. Avere una nozione precisa di cosa sia la verità, e conoscere la verità.

2. Sapere cosa ciascuna delle persone con cui sei in relazione intenda con “verità”.

3. Avere con ciascuno un criterio comune di “verità”.

4. Conoscere esattamente il confine tra ciò che sai e ciò che non sai.

5. Stringere il più possibile la verità, ridurre la menzogna a un filo sottile che s’insinua abilmente nelle trame del veritiero, per via associativa.

6. Essere perfettamente padroni di tutte le manifestazioni del corpo. Ad esempio – applicando il precetto precedente – si potrà dire letteralmente la verità, ma i gesti o il tono sottile indurranno l’altro a credere che stai mentendo.

7. Prevenire la catena di menzogne che derivano dalla prima, non perdere mai il filo ed essere pronto a subire tutte le conseguenze, non solo spiacevoli, ma anche umilianti…

Ci sono ancora altri precetti, ma vi ho visto, tutti, impallidire di sconforto a partire dal primo e crollare al sesto; vi ho sentito sussurrare, “Ma non ci arriveremo mai!”. Di certo, non ce la farete domani. Ma, aspettate: è proprio a causa della difficoltà della via maestra che abbiamo inventato la scala di servizio. Questo secondo percorso è molto facile, accessibile a tutti: possiamo percorrerlo senza che nulla cambi nella nostra routine quotidiana, perfino durante il sonno. C’è solo un precetto da applicare: mentire a se stessi. In altre parole, non c’è nulla di speciale da fare se non essere semplicemente ciò che si è – se è lecito in questo caso usare il verbo sostanziale. Allora mentire sarà facile e perfino piacevole.

Tutto ciò che ho detto si applica bene al rapporto tra arte e menzogna e alla letteratura o all’arte in generale, poiché, come ho detto, è dalle letture, buone, cattive, mediocri, che ho imparato i rudimenti dell’arte della menzogna a doppio senso. Per mettere i puntini sulle i: concluderò dicendo che la menzogna non dovrebbe essere al servizio dell’arte, ma piuttosto l’arte a servizio della nobile scienza della menzogna.

René Daumal