L’arte anticipa la comunicazione e gioca a scacchi con l’economia.

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di Emilio Isgrò

Il presidente della Fondazione Burri, Bruno Corà, ha avuto una bella idea. Quella di convocare a Città di Castello (dove si celebra il centenario del pittore dei Sacchi) una pattuglia d’artisti «internazionali» (come oggi si definiscono) perché discutano liberamente di temi e problemi coinvolgenti il mondo dell’arte non meno che quello dell’economia o della politica.
Distribuiti su nove tavoli, gli ospiti dovranno affrontare argomenti di forte rilievo come l’etica, la scienza, il sacro, la finanza e via di questo passo. Tuttavia non saranno soli, perché a ogni tavolo siederà con loro il direttore di un importante museo europeo nelle vesti di coordinatore e di tutor. E si capisce: fidarsi degli artisti è bene, ma abbandonarli completamente a se stessi, via, non scherziamo…
A me è capitato di essere assegnato al tavolo dedicato alla comunicazione, che in fin dei conti è il problema dei problemi, quello che tutti li contiene e tutti li trascende.
Si è creduto finora che il grande gioco dell’arte fosse condotto principalmente dall’informazione mediatica, la sola capace di dare agli artisti la visibilità di cui il mercato ha bisogno per svolgere il proprio ruolo di mediazione tra il pubblico e la cultura. Senza la stampa, la televisione, i social network e le reti telematiche, in altre parole, non ci sarebbe arte e neppure mercato. E forse neanche finanza.
Se non che negli ultimi anni, tra quotazioni inspiegabili e sparizioni improvvise di «geni» stagionali, la figura carismatica dell’artista in sé, capace di portare dubbi e domande, si è progressivamente offuscata, lasciando spazio a una sottocultura globale che rimastica a tutte le latitudini gli stessi stili e le medesime formule. All’arte si è sostituita l’artisticità; alla creazione solitaria una creatività «democratica» che ha moltiplicato smisuratamente il numero degli artisti. Con il risultato che una buona parte dell’arte contemporanea è diventata più trasparente dell’acqua e del vetro, e dunque destinata a non generare sorprese.
D’altra parte non c’è bisogno di essere filosofi per capire che la sorpresa è la sostanza stessa dell’arte; e soprattutto che non c’è sorpresa senza un minimo di ambiguità e di contraddizione. Non mi fa né caldo né freddo che due più due faccia quattro. Mentre mi scompiglia che possa far cinque. Fu a questo proposito che già negli anni 30 del Novecento l’americano William Empson identificò per la poesia Sette tipi di ambiguità, intitolando così il suo libro più famoso.
Il colpo di grazia a questo genere di riflessioni lo diede Andy Warhol nel 1962 con la sua Campbell’s Soup . L’idea derivava da Marcel Duchamp, che nel 1913 aveva collocato su uno sgabello una normalissima «Ruota di bicicletta », esponendola come scultura in gallerie e musei di mezzo mondo. Operazione poi ripetuta con lo «Scolabottiglie», e successivamente con il leggendario «Orinatoio», proposto al pubblico con più enfasi della Venere di Milo .
Bastava quel processo di straniamento, secondo le teorie dei formalisti russi, perché l’oggetto, spostato dall’uso quotidiano al museo, là dove nessuno se l’aspettava, si colorasse automaticamente di una luce ambigua, acquisendo un valore estetico irresistibile. Così come suona irresistibile, per credenti e non credenti, un’Ave Maria recitata in un bordello. Purché rimanga percepibile che c’è stato uno spostamento di luoghi e di modi.
Con la Campbell’s Soup , Warhol tentò un’operazione analoga. Solo che l’infelice artista alla fine fu tradito dai suoi stessi mercanti: i quali trovarono più comodo e redditizio trasformare in un supermercato anche il museo. Con l’effetto catastrofico che le due zuppe — quella commestibile e quella serigrafata — sono diventate perfettamente identiche, entrambe depurate di ogni ambiguità e contraddizione.
Allora la domanda è questa: se la zuppa dell’arte è uguale a quella del supermarket, perché devo pagarla cento milioni di dollari quando l’altra costa meno di un euro?
È su questo sasso che inciampa il ready-made warholiano. L’impossibilità di attribuire una qualità di differenza alle cose in un mondo in cui tutto appare uniforme, un immenso aeroporto dove si vedono dappertutto gli stessi abiti e gli stessi profumi, i medesimi squali e gli stessi orsacchiotti.
Eppure, quando si affronta il problema della comunicazione nella sua specificità, basta poco per rendersi conto che in molti casi l’artista, nel tentativo di impadronirsi delle tecniche d’informazione massmediatiche per meglio arrivare al pubblico, può conoscere l’amaro destino dell’apprendista stregone. Non solo diventando più immediato e diretto di un bravo giornalista o telecronista, ma addirittura superandoli in velocità e spregiudicatezza. Fino al rovesciamento peggiore: che se ai tempi di Marinetti era la stampa a decretare il successo dell’arte (tanto che il padre del Futurismo fu costretto a chiedere aiuto al «Figaro» per la divulgazione del suo Manifesto) oggi sono gli artisti a precedere la comunicazione mediatica, producendo un’arte che quanto a scorrevolezza e facilità di approccio sopravanza i migliori giornali e network d’Europa e d’America.
Per più di un secolo l’ambizione dei pittori e dei letterati è stata quella di dissolversi nella vita, illudendosi di renderla migliore. Solo che si è andati troppo avanti e ora (sia detto per paradosso) arte e finanza fanno a gara a chi per prima corrompe l’altra, mescolandosi in un amplesso mortale. È semplicemente per questo che l’arte è diventata una minaccia per tutti (ortolani e farmacisti compresi). Perché la gente la scambia per la vita stessa. Mentre rischia di essere il modello di tutte le manipolazioni ancora possibili.