L’AMBIGUITÀ SULLA GUERRA STA DIVENTANDO LO SPARTIACQUE

di Massimo Franco

 

Le spinte centrifughe si moltiplicano: si tratti di magistratura, fisco, politica estera. Ma il modo in cui la Lega di Matteo Salvini si sta sbilanciando a favore della Russia comincia a diventare vistoso. Si tratta di un partito di governo, eppure sull’aggressione all’Ucraina ha dimostrato di volersi smarcare dalle sanzioni contro Mosca molto più della destra d’opposizione di Giorgia Meloni. E questo prelude a un problema serio dentro la maggioranza di Mario Draghi, perché lo spartiacque dell’affidabilità internazionale conterà sempre di più.

La critica di ieri alla Farnesina e a Palazzo Chigi dopo la decisione di espellere trenta diplomatici russi sospettati di spionaggio lo ha evidenziato in modo palpabile. Imprecisate «fonti della Lega» hanno fatto sapere che «la pace si raggiunge con il dialogo e la diplomazia e non espellendo i diplomatici». E poco dopo lo stesso Salvini ha dichiarato, riferendosi a quella decisione: «Non entro nel merito, ma le guerre nel 2022 non le vinci con i carri armati». A suo avviso servono «la diplomazia, il buon senso».

E questo mentre il premier da Torino chiedeva di nuovo a Vladimir Putin di cessare le ostilità, sottolineando come la guerra d’aggressione all’Ucraina sia «una vergogna per il suo popolo». Per il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che pure è esponente di un M5S refrattario col fondatore Beppe Grillo e con il leader Giuseppe Conte a attaccare Putin, è stato facile replicare: «Non rispondo alle provocazioni», spiegando che il provvedimento serve a garantire la «sicurezza nazionale». Ma il problema rimane.

Pesa perché non riguarda solo la posizione del Carroccio dentro il governo. Di nuovo, si estende a i rapporti con l’intera Unione europea, perché Draghi e Di Maio sono arrivati alla decisione drastica di ieri, come alle sanzioni, in pieno accordo con le altre nazioni alleate. Se a questo si aggiungono le lodi sperticate al presidente ungherese Viktor Orbán per la sua vittoria alle elezioni di domenica, il profilo euroscettico e filo-russo di Salvini riemerge con prepotenza. E lo proietta sulla coalizione di Draghi e sul centrodestra, come un’ipoteca in grado di minare la credibilità di uno schieramento che si candida a governare l’Italia.

Anche la critica all’aumento delle spese militari, ripetuta ieri nella scia del grillino Conte, chiedendo di non farlo «a discapito di altri», contribuisce ad alimentare i sospetti. È vero che anche Fratelli d’Italia invita a non favorire un inasprimento del conflitto. Ma lo fa dopo che la leader Giorgia Meloni si è schierata fin dall’inizio con l’Occidente. Non è una differenza da poco. Più che raffigurare un Salvini «solo contro tutti» e vincente, come Orbán, il suo slittamento a est rischia di fotografarne l’isolamento crescente.

 

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