L’altro Boldini.

GAIA RAU
Dimenticate il Boldini della Belle Époque, il talentuoso ritrattista di muse dalle forme sinuose e gli abiti sontuosi, interprete celebratissimo del glamour e della sensualità parigini di inizio Novecento. È un artista diverso, più acerbo forse, senza dubbio spiazzante agli occhi del grande pubblico, quello svelato a Pistoia dalla mostra Giovanni Boldini — La stagione della Falconiera, ospitata dai musei dell’Antico Palazzo dei Vescovi da oggi al 6 gennaio nell’anno in cui la città è Capitale italiana della cultura. Cuore dell’esposizione, curata da Francesca Dini con la collaborazione di Andrea Baldinotti e di Vincenzo Farinella, e promossa dalla Cassa di Risparmio di Pistoia e della Lucchesia, il periodo trascorso dal pittore ferrarese in Toscana, sul finire degli anni Sessanta dell’Ottocento, e la sua, seppur personalissima, adesione alla corrente macchiaiola. Quest’ultima incarnata, in particolare da un ciclo di pitture murali a tempera, a lungo dimenticato e recuperato solo in anni recenti, realizzato per la tenuta pistoiese della mecenate britannica Isabella Falconer, e destinato a rimanere un unicum nella lunga e prolificissima attività di Boldini, all’epoca appena venticinquenne e attratto da temi come l’aratura, la battitura del grano, ma anche il mare e la pastorizia, centrali proprio negli stessi anni nella produzione di Telemaco Signorini e della sua scuola.
Un capolavoro la cui riscoperta ha permesso ai curatori di raccontare una “storia nella storia”, inconsueta quanto affascinante. Quella, intrigante come un romanzo, della stessa Falconer, vedova di un colto uomo di chiesa, il reverendo William Falconer, ma prima ancora astro dei salotti letterari parigini, che frequentava insieme al primo marito, o meglio moglie: la scrittrice Mary Diana Dods, conosciuta in società con lo pseudonimo e gli abiti maschili di Walter Sholto Douglas (e, prima ancora, di David Lyndsay), che Isabella, diciassettenne, incinta e in rotta col padre — l’agiato costruttore Joshua Robinson — era riuscita a sposare grazie a un’improbabile operazione di salvataggio orchestrata da Mary Shelley, grande amica di entrambe. Una vicenda sepolta all’epoca del trasferimento in Italia dei Falconer, probabilmente ignorata dalla stessa figlia di Isabella, Adelina, e ricostruita soltanto vent’anni fa da una studiosa americana, Betty Bennett, ai margini di una ricerca sull’autrice di Frankenstein. E pronta a riaffiorare oggi, rocambolesco antefatto della vicenda toscana di Boldini e della sua stravagante protettrice. Con cui il pittore ebbe un rapporto tormentato, finendo per andarsene da Villa La Falconiera senza terminare una serie di dipinti per i quali aveva, tuttavia, ricevuto dalla mecenate un cospicuo anticipo.
Al centro della mostra, accanto alle pitture murali della Falconiera, sedici opere realizzate da Boldini sempre nel periodo toscano, provenienti da collezioni private e da musei pubblici. Tra queste la Marina del 1870 custodita a Milano, trasposizione su tela di una scena del ciclo; i ritratti di Telemaco Signorini (1870) e di Cristiano Banti (1866), artisti legatissimi al pittore, dalla Galleria d’Arte moderna di Palazzo Pitti, e ancora l’innovativo, per posa e colori, Giovane paggio che gioca con un levriero del 1869, la raffinata Alaide Banti in abito bianco (1866) e un superbo Generale Spagnolo dipinto nell’inverno fra il 1867 e il 1868, che Boldini aveva trascorso in Costa Azzurra insieme a Isabella (Palazzo dei Vescovi, mar.-giov.-ven. ore 10-16, sab. dom. 10-19,30; 7 euro).
Fonte: La Repubblica, www.repubblica.it/