La vita oltre le sbarre.

Alfredo Jaar Infinite Cell (2004) from the Gramsci Trilogy, installation 2 (600x448)

Giacomo Pisani

Ieri oltre 700 migranti sono morti in un naufragio al largo delle coste libiche. È la più grande tragedia di migranti, che chiama in causa, oggi più che mai, le politiche di reclusione in atto anche nel nostro paese. I CIE non sono dei lager, in cui ogni momento del giorno e della notte è scandito dalle regole ferree dei sorveglianti. Il CIE è un buco nero, uno spazio senza fondo, un imbuto senza uscita, perché nessuno sa quando sarà espulso. Nei CIE, centri di identificazione ed espulsione, non è come in carcere, la vita dei migranti è poco irregimentata. Sono pochi i doveri che lo straniero deve rispettare. Eppure la maggior parte dei detenuti preferisce ingoiare gli psicofarmaci e i sonniferi, pur di sfuggire a quella gabbia. Perché nel CIE viene meno qualsiasi riferimento, hai perso già tutto, dagli indumenti agli affetti, dalla possibilità di progettare la tua vita alla capacità di comunicare.

Spesso si è soli fra gente che parla lingue diverse, persi in un vortice di incertezza e di paura, perché nessuno sa cosa sarà delle proprie vite. Dopo viaggi estenuanti e mille ostacoli, spesso anche dopo lunghi periodi trascorsi in Italia, in una terra nuova priva di certezze e appigli, finisci lì, in condizioni disumane, chiuso fra delle mura, nella sporcizia e nel degrado più atroce. Perché nel CIE la promiscuità è il fattore più caratterizzante, non c’è un angolo in cui restare soli con se stessi, riconoscersi, proiettarsi in avanti. Nel CIE ogni momento è contaminato dalla sporcizia e dallo stress, che è anche quello di chi sta attorno.

Nessuno è lì ad ascoltarti perché tutti hanno perso la parola, la parola sfugge alla propria intimità perché quell’intimità non c’è più, si è smarrita nei chilometri lontano dalla famiglia e dalla propria terra, dalle proprie abitudini e dalle proprie certezze. Le parole allora diventano prive di significato, meglio cucirla la bocca, richiudersi a guscio e sfuggire a tutto quello che sta attorno.Come hanno fatto alcuni uomini e donne nel dicembre 2013 nel CIE di Ponte Galeria, a Roma.

Il CIE è la soluzione più coerente con l’ideologia dominante, è un confine invalicabile che cancella alla vista l’orrore della disumanizzazione, della cancellazione della dignità e dell’identità. Toglie dalla vista ciò che morde al cuore perché minaccia ciò che di più intimo abbiamo. La certezza di poter stare al mondo e scegliere la propria vita senza che nessuno ci riduca ad animali o oggetti. Forse è stato questo vuoto, il buco nero del dis-umano a far sì che la detenzione amministrativa si sviluppasse sempre più al di fuori del diritto statutario e di scelte legislative intenzionali. L’orrore della detenzione amministrativa degli stranieri si è sempre più poggiato sulle prassi amministrative e poliziesche, sulle scelte di singoli burocrati, su un diritto consuetudinario cresciuto al di fuori della legge.

Per questo oggi nessuno è colpevole. Nessuno è razzista, nessuno vuole attentare alla vita di chicchessia. Semplicemente l’immigrazione è un problema che non riguarda nessuno. Non deve neanche rientrare fra i problemi, deve essere messo fuori dal proprio angolo visuale. Dobbiamo cancellare dalla vista gli scarti che noi stessi produciamo, in quanto funzionali ad una divisione internazionale del lavoro che oggi riarticola modi di produzione e forme di vita a livello internazionale. Confini e frontiere determinano flussi di lavoro vivo e governano la mobilità della forza lavoro producendo tensioni e conflitti. Nel confinamento e nella reclusione si determina allora la produzione di soggettività e la composizione del lavoro dentro le logiche del capitale.

Gli scarti, gli esuberi sbattuti da un confine all’altro devono sparire nel buco nero, perché nell’immigrazione è in gioco il nostro stesso essere ospitati in un mondo che non è il nostro, ma che ci espone a mille eventi e condizioni, a partire dalle quali soltanto possiamo vivere e agire. Nell’ospitalità del mondo esterno è in gioco la nostra stessa esistenza, che è tutt’altro che sguardo assoluto e trascendente su tutto il resto. Il migrante è la sfida più grande all’uomo occidentale, sicuro a casa con la sua famiglia. È un proiettile che mira al cuore delle nostre sicurezze per farci cogliere al fondo del nostro giudizio le basi storiche, contingenti, sempre esposte all’alterità. Sempre in pericolo di crollare, quando l’altro non è ospitale. La vita è sempre segnata dall’altro, e solo assumendo questa irriducibile finitezza è possibile incidere sul reale, dire il mondo, esserci. Senza mai dire “non lo sapevo”.