La verità che si nasconde nella Tempesta

misteri iconografici
Da cinquecento anni il capolavoro di Giorgione è al centro di un enigma interpretativo Che cosa rappresentano la donna che allatta, il soldato in primo piano e quel fulmine sullo sfondo? La risposta, forse, è più semplice di tante congetture
di Enrico Maria Dal Pozzolo
Le opere d’arte sono come le persone, di diverso tipo e qualità. Tutte, in qualche modo, ti parlano, ma pochissime hanno il potere di ammaliare. Quando capita, può iniziare una rincorsa – simile a quella di Apollo verso Dafne – che può durare una vita intera; per poi magari alla fine accorgersi che ci si è solo illusi di afferrarne il significato. È il caso della Tempesta di Giorgione, un dipinto che ha stregato generazioni di studiosi: una specie di stupenda, irresistibile sirena.
Il primo che ne scrisse fu Marcantonio Michiel, un patrizio veneziano appassionato d’arte, che tra il 1520 e il 1540 si appuntò in un quaderno le opere più interessanti viste nei luoghi pubblici e nelle collezioni private di Venezia e di altre città della Serenissima. Quel taccuino è giunto fino a noi e si conserva alla Biblioteca Marciana. Alla carta 65 registra « el paesetto in tela cum la tempesta, cum la cingana et soldato, fo de mano de Zorzi da Castelfranco » . Si trovava nel palazzo di un ricco e colto mercante di saponi, Gabriele Vendramin. Era il 1530 e di certo Michiel ammirò il quadro accompagnato dal proprietario, a cui si può presumere che abbia chiesto lumi sul “ soggetto”. Quale che sia stata la risposta del Vendramin, al suo ritorno si appuntò solo una descrizione minimale degli elementi figurativi: ossia « un paesaggio con una tempesta, una zingara e un soldato » . Erano passati vent’anni dalla morte, per peste, di Giorgione e almeno venticinque dall’esecuzione del dipinto, che in effetti non sappiamo per chi venne realizzato. L’ipotesi che il committente fosse stato lo stesso Vendramin, non escludibile, appare però meno probabile di quella che lo immagina semplice acquirente e ciò spiegherebbe anche la ragione per cui questi non fornì a Michiel informazioni più precise sul “tema”.
Ma c’era davvero un tema da riferire? « Il soggetto è la natura » , scrisse Lionello Venturi ( 1913), mentre più di recente Colin Eisler ( 2002) lo considerò il primo “ capriccio” della pittura veneziana, ossia una raffigurazione di fantasia, ottenuta ricombinando liberamente elementi eterogenei.
Nonostante le raccomandazioni del Vendramin – che implorò gli eredi che i suoi “ tesori” non si potessero « vender, né impegnar, né prestar, né tute né parte soto alcuna forma che dir et imaginar si possi» – dopo varie vicissitudini, nel XVII secolo il quadro passò a Cristoforo Orsetti, a fine Settecento a Girolamo Manfrin, prima del 1875 al principe Giuseppe Giovannelli e nel 1932 fu acquisito dallo Stato italiano per le Gallerie dell’Accademia. Da quel momento divenne non solo “ il capolavoro” del maestro di Castelfranco, ma un’icona del Rinascimento europeo. Tanti specialisti si misero alla prova per risolvere l’enigma iconografico e ne scaturì una pioggia di letture divergenti. Quando nel 1978 un ancor giovane Salvatore Settis decise di pubblicare un libro sul dipinto ( La “Tempesta” interpretata: Giorgione, i committenti, il soggetto) mise in fila poco meno di una trentina di proposte. Avanzò anche lui la sua ( Adamo ed Eva), ma – nonostante l’eccezionale capacità argomentativa dell’autore – non troppi vollero credergli. E l’interrogazione della sfinge ripartì. Da allora, quasi ogni anno si pubblica una “ nuova” interpretazione della Tempesta, in saggi e libri. L’ultimo è quello di Patrizio Turi – La Tempesta di Giorgione: (Caritas) nulli cedit ( editore Gli Ori) –, ma è solo l’anello di una catena interminabile, che alterna letture più o meno plausibili ad altre improbabili, se non deliranti. Inutile dire che tutti questi tentativi, spesso eruditi e ingegnosi, alla fine sembrano elidersi l’un con l’altro. Del resto, è proprio l’atipicità iconografica a scatenare un simile, inarrestabile “accanimento ermeneutico”, che pare destinato a protrarsi in eterno. O almeno fino a quando non emergeranno inediti e inoppugnabili elementi di rilettura storica.
Magari tra le centinaia di proposte avanzate c’è già quella giusta. Il problema è che questa invenzione – al pari di altre di Giorgione – sembra, per dir così, semanticamente flessibile e in certa misura impermeabile ai consueti approcci metodologici: con la conseguenza che i conti non tornano mai o, paradossalmente, tornano troppo facilmente. Quando si mise all’opera per illustrare quella determinata “storia” (l’ipotesi di un “ capriccio” è più che improbabile) egli lo fece cambiando spesso idea (lo dimostrano i raggi x) e verosimilmente adottando un grado di libertà interpretativa talmente ampio da confondere, allora come oggi, i parametri di giudizio. Per intendersi, quando anni prima rappresentò in due tavole il Giudizio di Salomone e Mosè di fronte al Faraone ( agli Uffizi), immaginò le scene non in contesti esotici allusivi al Medio Oriente, bensì in paesaggi che rammentano quelli delle colline trevigiane, però con alberi botanicamente assurdi e personaggi strampalati. Ciò significa che il criterio per cui una lettura affidabile dovrebbe rilegare in termini coerenti tutti gli elementi di una rappresentazione, per Giorgione non è assoluto, ma relativo.
Anche se frustrati, possiamo sentirci però in buona compagnia. Infatti, la specifica connotazione iconografica del dipinto andò presto smarrita, come dimostrano le precoci ricezioni figurative del suo allievo Sebastiano del Piombo e di Jacopo Palma il vecchio, che proposero composizioni impostate sul “ canovaccio” del «paesetto cun la cingana et soldato», ma elidendo proprio l’elemento caratterizzante l’invenzione giorgionesca: ossia il fulmine.
La tempesta era già passata, portandosi via – forse – la risposta che ossessivamente continuiamo a inseguire.
Robinson – la Repubblicawww.repubblica.it › robinson