di Giovanni De Luna
Le due torri bruciavano, dalle finestre sventolavano i fazzoletti bianchi di uomini e donne che stavano per morire: una disperata invocazione di aiuto, ma anche un ultimo gesto di addio. Poi il crollo, seguito da una immensa nuvola di polvere. In diretta televisiva, quello dell’11 settembre 2001 apparve subito l’evento della storia universale, fino ad allora, vissuto in prima persona dal maggior numero di testimoni oculari che ebbero, tutti, la percezione immediata di aver assistito a qualcosa di epocale.
Di solito è il tempo che passa a chiarire le «svolte» della storia. Il senno di poi è l’arma più consueta che gli storici usano per districarsi nella trama del tempo e valutare lo spessore degli avvenimenti. Quando, il 14 luglio 1789, ci fu l’assalto alla Bastiglia, Restif de la Bretonne stava passeggiando tranquillamente nell’Île de Paris senza accorgersi di quanto accadeva in città, a poca distanza da lui. Solo dopo anni gli storici fissarono in quella data l’inizio della Rivoluzione francese e sottolinearono il suo effetto periodizzante. Per l’11 settembre 2001 non ci fu bisogno di aspettare tanto. Per gli Stati Uniti l’eccezionalità del trauma fu fragorosa: per la prima volta un’azione paragonabile a un atto di guerra colpiva direttamente il territorio nazionale, eludendo la sorveglianza di giganteschi apparati difensivi. Ma anche nel resto del mondo si capì subito che qualcosa era cambiato nelle strutture profonde della nostra esistenza collettiva. Insieme alle torri, erano crollate molte delle nostre certezze. Territorio nazionale violato, confini statuali ridicolizzati, azzeramento della distinzione tra nemico esterno e nemico interno; ci scoprimmo, così, indifesi, precari, in una parola insicuri. E capimmo che sulla «sicurezza» si sarebbero giocati i destini delle nostre democrazie; una percezione che dall’opinione pubblica passò intatta nel dibattito storiografico.
Gli storici fecero il loro mestiere. Ne scaturì il confronto tra le ultime due «fine di secolo», segnate entrambe da attentati terroristici. In quelli anarchici della fine del XIX secolo perirono imperatrici (Elisabetta d’Austria), re (Umberto I di Savoia) e presidenti (il francese Sadi Carnot e lo statunitense William McKinley): era una strategia di morte fondata sull’indissolubilità del binomio sovranità-Stato nazionale e sceglieva come bersagli individui che impersonavano il potere statuale; fu anche la matrice ideologica di quanti, ancora nell’Italia degli anni 70, avrebbero voluto distruggere «il cuore dello Stato». Il terrorismo del Novecento si contrapponeva allo Stato, ma restava all’interno della logica della statualità politica; lo sfidava alla radice, contendendogli il monopolio della violenza, ma ricercando la propria legittimazione sullo stesso terreno. Il terrorismo dell’11 settembre era fuoriuscito in modo drammatico dagli orizzonti della statualità. Lo testimoniavano i suoi bersagli: non soltanto i centri del potere istituzionale (Pentagono e Casa Bianca), ma anche quelli del potere economico e finanziario (le Twin Towers del World Trade Center).
Era cambiato il ruolo dello Stato-nazione, cambiò il modo di fare la guerra.
Con al-Qaeda ci si trovò di fronte a un conflitto scatenato non da uno Stato, ma da un gruppo privato. L’organizzazione guidata da bin Laden aveva attraversato gli Stati, si era servita delle loro banche, ne aveva sfruttato i canali finanziari, i centri di addestramento militari, ma non era uno Stato: nella sua strategia del terrore al-Qaeda aveva coniugato la dimensione arcaica del fondamentalismo religioso con la totale modernità di un impianto organizzativo globalizzato, traducendo e evidenziando a suo modo l’implosione dello Stato-nazione. L’11 settembre rese evidente che nemmeno la conduzione della guerra era ormai una prerogativa esclusiva degli Stati, visto il moltiplicarsi di eserciti privati, finanziati dai proventi di traffici leciti (petrolio e diamanti) e illeciti (droga e generi di contrabbando). Alla guerra simmetrica del Novecento era subentrato un pulviscolo di conflitti, un groviglio di guerre civili, guerre ai civili, lotte di liberazione e terrorismo vero e proprio che insanguinano il nostro mondo ancora oggi e rendono permanente la nostra insicurezza.
L’affievolirsi del ruolo dello Stato era evidente anche nel tramonto delle ragioni geopolitiche e ideologiche come cause scatenanti delle guerre e nella loro sostituzione con motivi identitari e religiosi. Già allora, tra il 1989 e il 2005, su 121 conflitti censiti a livello internazionale, soltanto 11 erano stati combattuti tra Stati nazionali, mentre il 90% era scoppiato al loro interno. Inoltre, anche nella condotta della guerra si erano moltiplicati gli interventi di organismi sovranazionali, che – come poi nella guerra contro l’Isis – scavalcavano la sovranità dei Paesi sovrani, con le istituzioni internazionali che rivendicavano il diritto di giudicare e influenzare l’operato degli Stati all’interno dei loro stessi confini; l’Onu, ad esempio, tra il 1990 e il 2003 fu protagonista di ben 41 operazioni militari, contro le 16 dei 45 anni precedenti. Ma questo marcato attivismo non riuscì a garantire la pace. Secondo i dati forniti dall’Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) già nel 2016 le guerre in corso coinvolgevano 67 Stati e ben 774 gruppi e organizzazioni militari e paramilitari non riconducibili a uno Stato. I focolai più attivi erano quelli del Medio Oriente. Ed è questa la matrice ultima della nostra insicurezza: da un lato una dimensione territoriale della guerra che può essere ovunque, senza più la simmetria dei fronti e delle retrovie; dall’altro l’impossibilità di una distinzione netta tra guerra e pace. Da allora in poi focolai di guerra e di violenza si accendono e si spengono ovunque nel mondo, proponendo la guerra come un fenomeno endemico del nostro tempo. E le immagini che rimbalzano oggi dall’Afghanistan ne sono una tragica conferma.