Intossicati in fabbrica
Ieri sono morti tre operai a Milano, intossicati mentre pulivano un forno interrato.
Un altro è gravissimo. Dieci anni fa sette operai venivano bruciati vivi nel rogo della ThyssenKrupp di Torino.
Fu una tragedia, e insieme, una vergogna nazionale, che oggi si ripete. Come quasi ogni giorno in quella strage continua, silenziosa, nascosta di morti sul lavoro. Ogni anno più di mille.
Le chiamano morti bianche e anche questa è una vergogna.
In dieci anni non è cambiato quasi nulla. Lo dimostrano i fatti a dispetto delle parole, degli appelli e delle promesse che sempre in questi casi si accavallano rumorosi. E inutili.
I segue dalla prima L’Italia resta un paese contro il lavoro non solo perché non offre il lavoro a quasi tre milioni di cittadini, ma anche perché non è capace di difendere chi lavora, i suoi metalmeccanici come i suoi muratori. Quasi mai sono incidenti fatali, imprevedibili; quasi sempre sono frutto di violazioni di legge, di contratti non rispettati, di furbizie, di rischi eccessivi.
C’è qualcosa di malato nel lavoro italiano che riguarda tutti e che, alla fine, la morte ci sbatte in faccia, senza – per una volta – fare sconti a nessuno. Ci sono le responsabilità di chi governa che affoga nella retorica di fronte ai cadaveri ma poi balbetta nell’azione quotidiana per far rispettare le regole del lavoro in un paese civile che ancora fa parte dell’élite del mondo industriale.
Non basta approvare le leggi, rafforzare, sulla carta, i poteri di controllo e liberarsi così la coscienza. La sicurezza sul lavoro, il nostro lavoro, merita di più. Un’azione costante di verifica dell’efficacia delle proprie scelte che possono anche essere cambiate, adeguate, aggiornate, presidiando il territorio. Non porta consenso ma può ridurre il rischio di incidenti, di infortuni, di morti.
Ed è compito della politica in generale recuperare la cultura del lavoro, la sua centralità nella vita collettiva. Il lavoro è la nostra dimensione sociale. Ci permette di vivere tendenzialmente in maniera dignitosa, garantisce gran parte delle nostre libertà. È molto più di una mera occupazione e della busta paga a fine mese. Il valore di tutto questo ha il sapore antico e nel tempo del vuoto modernismo, del presunto efficientismo, del capitalismo finanziario che genera ricchezza ma non benessere, lo si è accantonato come un vecchio cimelio da rispolverare nelle occasioni solenni. Male.
Come è male il silenzio degli imprenditori. Non è un caso che gli incidenti si verifichino quasi sempre nelle aziende marginali, quelle degli appalti al massimo ribasso, quelle che sopravvivono tagliando i costi e – di fatto – anche i diritti dei lavoratori. Fanno concorrenza sleale alle aziende oneste. Che pure stanno zitte mentre dovrebbero gridare. E non applaudire – come avvenne davvero nel 2011 in un’assise confindustriale – il manager tedesco condannato per la strage della Thyssen.
E male anche i sindacati che in questi casi si affidano al rito stanco della denuncia. Ma uno sciopero generale contro le morti sul lavoro, o contro il lavoro nero spesso propedeutico all’incidente, non l’hanno mai proclamato.
Eppure riguarderebbe tutti.
Come i morti di ieri, avvelenati dal gas, nella ricca Milano, a un passo dall’Europa.
Un altro è gravissimo. Dieci anni fa sette operai venivano bruciati vivi nel rogo della ThyssenKrupp di Torino.
Fu una tragedia, e insieme, una vergogna nazionale, che oggi si ripete. Come quasi ogni giorno in quella strage continua, silenziosa, nascosta di morti sul lavoro. Ogni anno più di mille.
Le chiamano morti bianche e anche questa è una vergogna.
In dieci anni non è cambiato quasi nulla. Lo dimostrano i fatti a dispetto delle parole, degli appelli e delle promesse che sempre in questi casi si accavallano rumorosi. E inutili.
I segue dalla prima L’Italia resta un paese contro il lavoro non solo perché non offre il lavoro a quasi tre milioni di cittadini, ma anche perché non è capace di difendere chi lavora, i suoi metalmeccanici come i suoi muratori. Quasi mai sono incidenti fatali, imprevedibili; quasi sempre sono frutto di violazioni di legge, di contratti non rispettati, di furbizie, di rischi eccessivi.
C’è qualcosa di malato nel lavoro italiano che riguarda tutti e che, alla fine, la morte ci sbatte in faccia, senza – per una volta – fare sconti a nessuno. Ci sono le responsabilità di chi governa che affoga nella retorica di fronte ai cadaveri ma poi balbetta nell’azione quotidiana per far rispettare le regole del lavoro in un paese civile che ancora fa parte dell’élite del mondo industriale.
Non basta approvare le leggi, rafforzare, sulla carta, i poteri di controllo e liberarsi così la coscienza. La sicurezza sul lavoro, il nostro lavoro, merita di più. Un’azione costante di verifica dell’efficacia delle proprie scelte che possono anche essere cambiate, adeguate, aggiornate, presidiando il territorio. Non porta consenso ma può ridurre il rischio di incidenti, di infortuni, di morti.
Ed è compito della politica in generale recuperare la cultura del lavoro, la sua centralità nella vita collettiva. Il lavoro è la nostra dimensione sociale. Ci permette di vivere tendenzialmente in maniera dignitosa, garantisce gran parte delle nostre libertà. È molto più di una mera occupazione e della busta paga a fine mese. Il valore di tutto questo ha il sapore antico e nel tempo del vuoto modernismo, del presunto efficientismo, del capitalismo finanziario che genera ricchezza ma non benessere, lo si è accantonato come un vecchio cimelio da rispolverare nelle occasioni solenni. Male.
Come è male il silenzio degli imprenditori. Non è un caso che gli incidenti si verifichino quasi sempre nelle aziende marginali, quelle degli appalti al massimo ribasso, quelle che sopravvivono tagliando i costi e – di fatto – anche i diritti dei lavoratori. Fanno concorrenza sleale alle aziende oneste. Che pure stanno zitte mentre dovrebbero gridare. E non applaudire – come avvenne davvero nel 2011 in un’assise confindustriale – il manager tedesco condannato per la strage della Thyssen.
E male anche i sindacati che in questi casi si affidano al rito stanco della denuncia. Ma uno sciopero generale contro le morti sul lavoro, o contro il lavoro nero spesso propedeutico all’incidente, non l’hanno mai proclamato.
Eppure riguarderebbe tutti.
Come i morti di ieri, avvelenati dal gas, nella ricca Milano, a un passo dall’Europa.
La Repubblica – Roberto Mania – 17/01/2018 pg. 1,2 ed. Nazionale.