di Paolo Franchi
Scomparso. O, quanto meno, non pervenuto. Chi scrive se ne duole non poco, ma i fatti, come si diceva una volta, hanno la testa dura. E pochi fatti sono parsi così evidenti, in queste settimane drammatiche, come l’eclisse (ma forse anche questo è un cortese eufemismo) del socialismo europeo. A cominciare da quella Spd che, dopo essersi chiesta nelle settimane scorse, per bocca di Sigmar Gabriel, se non fosse il caso di rinunciare a esprimere un candidato cancelliere nelle prossime elezioni tedesche (un po’ come se il Milan o l’Inter annunciassero prima dell’inizio del campionato che non intendono gareggiare per lo scudetto, dando per scontato e per giusto che sia in partenza appannaggio della Juventus), si è fatta sentire solo per recitare (sempre con Gabriel, ma pure con Martin Schulz) la parte del falco. Non un’idea, non una proposta, non un’iniziativa autonoma, anche perché manca una prospettiva, una visione comune dell’Europa cui agganciarle. Così che, qui da noi, non si sa bene se ridere o piangere ripensando all’interminabile tira e molla degli anni scorsi tra chi voleva aderire finalmente al Pse e chi si diceva disposto a tutto pur di non morire socialista: Matteo Renzi, appena eletto segretario del Pd, ha giustamente rotto gli indugi, ma a questo punto il suo è, paradossalmente, il più forte partito nazionale di un partito continentale della cui esistenza si fatica a trovare traccia.
Lasciamo pure da parte le belle bandiere ammainate, la lumaca socialdemocratica di cui Günther Grass tesseva contro corrente l’elogio nel fatidico 1968 è sempre stata estranea e restia alla retorica. Diritti, occupazione, salute, istruzione, elevamento crescente delle condizioni e della qualità della vita dei lavoratori: la socialdemocrazia non è stata certo, nel lungo Dopoguerra, l’unica forza impegnata in questa direzione, ma il suo merito storico, il suo vanto, il suo decisivo contributo alla civiltà europea è stato quel compromesso democratico tra capitale e lavoro che ha funzionato da base politica e culturale di Stati sociali realizzati plasmando il welfare europeo con gli strumenti dell’espansione della spesa pubblica e degli Stati nazionali. Chi c’era, comincia a ricordare questa stagione ( les Trente glorieuses ) come una sorta di età dell’oro: ai tempi della nostra giovinezza, in una porzione tutto sommato ristretta del mondo, l’Europa occidentale, si è vissuto, seppure in parte a scapito delle generazioni future, come nessuna generazione precedente avrebbe potuto anche solo sognare di vivere. Ma indietro non si torna, con la nostalgia non si costruisce futuro. Tutto questo si è esaurito sul finire degli anni Settanta, forse anche prima, e i decenni successivi, quelli dell’offensiva neoliberista e del tracollo dell’Unione Sovietica prima, della globalizzazione poi, non hanno fatto che aggravare oltre misura le difficoltà del modello socialdemocratico tradizionale, senza che gli innovatori veri o presunti (valga per tutti il nome di Tony Blair) riuscissero a metterne in piedi un altro di pari dignità e di pari forza egemonica.
«L’Internazionale/futura umanità»? Meglio non infierire. È vero che uno spazio democratico europeo praticamente non esiste, e in ogni Paese della Ue (in questo la Germania non è troppo diversa dalla Grecia) governanti e oppositori badano in primo luogo all’elettorato di casa propria. Per curiosa che la cosa possa apparire, però, il soggetto politico vocazionalmente «internazionalista» è quello che più fatica a fuoriuscire dal proprio orticello nazionale o, peggio, che non si pone nemmeno il problema di come farlo. Non è una novità, certo: in questa logica, negli ultimi venticinque anni, ha assistito impotente, tutt’al più cercando di ridurre il danno, a una gigantesca redistribuzione della ricchezza e del potere dai meno ai più avvantaggiati e allo sconvolgimento tellurico di un consolidato sistema di valori che ne hanno offuscato l’eredità storico-politica, ne hanno minato in radice il residuo insediamento sociale ed elettorale e l’hanno privata dell’identità tradizionale senza che sapesse costruirne una nuova e diversa.
Ma con l’approfondirsi della crisi europea, che l’accordo (chiamiamolo così) di Bruxelles ha probabilmente, nel migliore dei casi, solo procrastinato, tutto questo rischia di precipitare con esiti imprevedibili. A lungo si è pensato, e molti continuano a pensare, che le sorti della socialdemocrazia siano legate alla sua capacità di guadagnare e presidiare il centro. Vero, giusto (almeno nell’Europa del Centro Nord) fino a quando il conflitto, il confronto e il compromesso continuano, in ultima analisi, a incardinarsi sulla coppia destra/sinistra così come si è costituita, in Occidente, nel secondo Dopoguerra. Un po’ meno vero, un po’ meno giusto, se lo schema cominciasse a cambiare in profondità, e la lotta politica a livello nazionale e internazionale, anche grazie al vuoto pneumatico delle élite progressiste e al crescente deficit democratico, prendesse sempre più le forme di una contestazione radicale e attacco (ma forse sarebbe meglio dire di un contrattacco) mosso dal basso verso l’alto della società e del sistema. Qualcosa del genere nell’Europa meridionale sta già capitando. Basta pensare a Syriza, qualunque possa essere nei prossimi giorni e nelle prossime settimane la sorte del partito di Tsipras, a Podemos in Spagna e, da noi, seppure in forme molto diverse, a Cinque Stelle. Ben difficilmente potrà conquistare la maggioranza degli elettori. Ma ancora più difficilmente si lascerà esorcizzare da qualche litania sul populismo.