di Maurizio Molinari
A ssumere la direzione di Repubblica significa raccogliere la sfida di descrivere un’Italia aggredita dalla pandemia, ferita dalle diseguaglianze e segnata dal populismo ma al tempo stesso con le potenzialità di tornare protagonista in Europa ed in Occidente.
È una sfida che si fonda sul rispetto per chi mi ha preceduto alla guida di questo giornale interpretando, sin dalla fondazione nel 1976, il bisogno di un’informazione di qualità nel costante richiamo ai valori della Costituzione repubblicana puntando, come ha affermato Eugenio Scalfari in una conversazione con Ezio Mauro, «sulla scommessa di trovare sempre nuovo pubblico».
E sul rispetto per i lettori che sono più intelligenti di noi e meritano ogni sacrificio al fine di spiegare quanto avviene nelle nostre città e nel mondo grazie a contenuti competitivi su ogni piattaforma, dalla carta al digitale.
La sfida che abbiamo davanti è descrivere un’Italia aggredita dalla pandemia e ferita dalle diseguaglianze perché queste sono i più seri banchi di prova per la sicurezza dei cittadini.
La coincidenza con il 25 Aprile, 75° anniversario della Liberazione dal nazifascismo, ci spinge a prendere esempio da chi seppe distinguere il Bene dal Male, rischiando la vita per la libertà del prossimo, al fine di edificare uno Stato di Diritto che è, ancora oggi, la migliore garanzia di protezione e prosperità.
La pandemia è un avversario globale, feroce ed invisibile che ci ha attaccato di sorpresa mettendo a nudo la vulnerabilità del sistema sanitario e i ritardi della risposta di un governo frenato dalla burocrazia. Ma la stessa pandemia ha esaltato le qualità di una moltitudine di cittadini, dal personale sanitario alle forze dell’ordine fino a milioni di singoli individui, che si sono trasformati in un formidabile scudo per la collettività. Ciò significa che la risposta al Covid 19 può consentire di far venire alla luce l’Italia migliore, del lavoro e della solidarietà, a dispetto dei ritardi e degli errori dovuti a una politica appesantita da rivalità personali, incapacità tecniche, resistenze burocratiche, freni ideologici e forti spinte populiste.
L’opportunità per l’Italia è sfruttare la risposta al virus per varare le riforme necessarie a sanare le ferite più gravi che ci accomunano alle altre democrazie avanzate: le diseguaglianze economiche e sociali. Si tratta di squilibri di reddito, sviluppo, formazione, capacità professionali, educazione, genere e conoscenza che alimentano lo scontento del ceto medio e si originano dal salto fra rivoluzione industriale e rivoluzione digitale avvenuto negli ultimi venti anni. Un quarto di secolo fa fu il sociologo anglotedesco Ralf Dahrendorf nel libro Quadrare il cerchio a prevedere questa ferita e su queste pagine venne descritta così: «La globalizzazione trasforma gli uomini in animali da combattimento, con una competizione all’eccesso, la scena è il Pianeta, portando alla nascita di una classe media anonima priva di radici, con un impatto socialmente devastante». Le diseguaglianze sono un avversario ben più sofisticato e temibile della povertà novecentesca: non basta il Pil per misurarle perché non sono esclusivamente uno status economico ma uno stato d’animo. Generando la diffusa sensazione di essere “dimenticati” o “scartati” dallo sviluppo sulla quale fiorisce il populismo di ogni matrice. La risposta alle diseguaglianze è nel proteggere chi sente di esserne vittima e ciò significa ridisegnare i compiti dello Stato nazionale, destinando una parte strategica delle risorse pubbliche alle necessità fondamentali degli individui: a cominciare dalla riqualificazione professionale per convivere con le nuove tecnologie e dalle garanzie sanitarie per una popolazione sempre più anziana. Ovvero, proteggere lavoratori e terza età con riforme capaci di trasformarli nelle leve di un nuovo tipo di sviluppo, basato su programmi di lungo termine e nuove protezioni sociali. Come disse Robert Kennedy in un visionario discorso all’Università del Kansas del marzo 1968 «il limite del Pil» è nell’essere «basato sui numeri» e «non considerare la felicità degli individui». Davanti alla devastazione economica causata dal coronavirus, la sfida per una democrazia avanzata è ricostruirsi partendo dunque dagli individui, proteggendoli dai nuovi pericoli e aiutandoli a risollevarsi andando incontro alle dinamiche dell’economia digitale dove l’intelligenza artificiale sta assumendo il ruolo che ebbe l’elettricità nella rivoluzione industriale. Riuscendo a vincere questa sfida gli Stati nazionali possono rilegittimare la democrazia rappresentativa davanti ai cittadini e dunque respingere l’assalto del populismo che cavalca l’ostilità per il prossimo al fine di imporsi sulla collettività. Ma per cogliere tale successo le democrazie hanno bisogno di veder nascere dalle rovine della pandemia una nuova generazione di leader capaci di interpretare la impellenza della ricostruzione ispirandosi a quanto disse Leonardo da Vinci cinque secoli fa «sull’urgenza del fare» perché «conoscere e desiderare non basta, bisogna realizzare e fare».