La rivoluzione incompiuta

Poiché il libro (Il coraggio delle donne, Il Mulino, pp. 168, euro 14) è il risultato di una corposa corrispondenza fra due figure notevoli, Dacia Maraini nella letteratura e Chiara Valentini nel giornalismo; e il dialogo verte su un argomento di grande importanza – se le donne stanno vincendo o no – leggerlo è anche per i maschi di grande interesse. Oltretutto è accompagnato dalle storie, davvero preziose, delle donne coraggiose dall’antichità all’era moderna.

Detto questo resta molto da riflettere sulla risposta offerta al quesito che non è affatto scontata e dipende da molte considerazioni. Neppure le due autrici, del resto, pretendono di averne data una univoca, come fa, invece, con una semplificazione che gli è consueta, Marcel Gauchet nel suo recente pamphlet La fine del dominio maschile (Vita e pensiero, 2019) da cui parte la discussione fra Chiara e Dacia.

MISURARE UNA VITTORIA è facile quando si parla di una partita di calcio: si contano i goal, ed è deciso. Nel caso di una rivoluzione, quale è quella femminista, in un tempo in cui siamo ormai tutti convinti che non si tratta per nessuna di conquistare un palazzo d’inverno, ma sempre di un processo che non è affatto lineare, la valutazione è ben più controversa. Anche perché, poiché neppure in questo caso è «un pranzo di gala», bisogna scontare che lungo l’accidentato percorso si producano contraccolpi insidiosi. E anche fuoco amico, intendendo con questo le false proclamazioni di vittoria da parte di chi pensa ci si debba contentare di qualche misera conquista, disarmare e dire che si è appagate. Penso a chi ritiene che l’obbiettivo delle donne si limiti a qualche permesso d’accesso alle carriere un tempo precluse per legge o per prassi. Su questo Dacia sembra essere più condiscendente di Chiara, io, per parte mia, lo sono forse anche meno di lei, perché anche solo formulare l’obiettivo della parità di genere mi sembra sempre un indiretto riconoscimento dell’inferiorità di donne che anelano di ottenere l’agognato privilegio di «diventare come gli uomini».

E ALLORA: la rivoluzione delle donne sta vincendo? Io credo sia giusto dire che è la sola rivoluzione del nostro tempo ad essere vincente, il che non vuol dire ovviamente che abbia già vinto. E tuttavia i mutamenti intervenuti in questi anni grazie a una inedita e in qualche modo sorprendente presa di parola da parte di milioni di donne abituate a star zitte non sono certo poca cosa. Più grandi di quanto non avremmo creduto. Basta guardare i numeri: le donne, almeno in occidente, sono ormai la maggioranza o quasi, fra i magistrati, i medici, gli scienziati, gli scrittori, i docenti universitari, persino fra questori e prefetti. E persino nella politica, perché non è cosa di poco conto che l‘Europa veda al massimo comando proprio tre donne: Merkel,Von der Leyen, Lagarde.

GIUSTAMENTE Dacia sottolinea che però, nei fatti, queste vittorie risultano meno importanti di quel che si dice, visto che il contesto socio culturale in cui sono strappate resta inalterato e finisce per condizionarle profondamente. È tuttavia innegabile che esse hanno dato autorità alle donne, tant’è vero che adesso vengono persino credute, come accade grazie al #MeToo, le denunce delle violenze subite. Chi se lo sarebbe aspettato? Al di là del diritto a diventare poliziotto o magistrato, la conquista importante è dì aver costruito quel che più conta: una soggettività collettiva che non c’era mai stata.

E forse proprio questa forza ci ha oggi portato ad un passaggio difficilissimo, perché nessuna rivoluzione vince senza spargimento di sangue e i maschi reagiscono male alla loro perdita, non ancora di potere, ma certo di autorità. E ammazzano, non più perché la vittima è irrilevante, ma, al contrario, perché ha conquistato troppa autonomia. All’origine dei femminicidi c’è sempre la reazione rabbiosa di chi si scopre perdente. In qualche modo sono la sanguinosa prova della vittoria della rivoluzione femminile che procede ben prima che i maschi abbiano elaborato la loro sconfitta.

E tuttavia vorrei mantenere la distinzione fra «vincente» e «vittoria»: la conquista di diritti per le donne è molto importante, ma è un passo, non il traguardo. Voglio dire che non può esserci parità reale nell’usufruire dei diritti concessi dalla legge se quella legge, così come tutte le norme previste anche dall’«avanzatissimo» sistema occidentale, sono state disegnate a partire dal grande imbroglio che dà per esistente un essere umano neutro che invece non c’è. Quello che viene spacciato per neutro è nient’altro che il modello maschile. Il diritto a usufruirne è pur sempre vittoria parziale.

PENSO SEMPRE al diritto al lavoro, tanto per fare un esempio, e a tutti i diritti che vi sono connessi: vi pare che se il legislatore avesse avuto in mente che a goderne ci sarebbero dovute essere anche le donne quel diritto lo avrebbe scritto così? Non credo, e infatti se guardo a quante donne in questi anni sono diventate medici magistrati o poliziotte, moltissime – evviva! – e però poi vado a vedere più da vicino, trovo che fra i maschi della categoria di solito quasi tutti hanno figli, mentre le donne madri sono molte di meno. (Fra i manager, la categoria per cui ho dati precisi, i maschi genitori sono al 95 % , le donne solo al 35%.)

Salvo il sacrosanto diritto di una donna di decidere di non riprodursi, dubito che tante vi abbiano rinunciato per libera scelta. Vuol dire che il problema non è conquistare i dritti dei maschi, ma ottenere che si scrivano leggi che prevedono l’esistenza delle femmine e non impongano loro di «adattarsi» per poter lavorare. Perché le donne hanno bisogno di altri orari, altri cicli, di una società diversamente organizzata che non le obblighi a scegliere fra la maternità e il lavoro, o imponga a chi «pretende» di fare tutti e due sacrifici molto pesanti.

Insomma, io continuo a credere che avesse ragione Carla Lonzi quando ha scritto che «l’uguaglianza è solo la veste con cui viene mascherata l’inferiorità». Per poter dire che abbiamo vinto dobbiamo smontare l’idea che esista un cittadino neutro, che è quella alla base di tutta la regolamentazione giuridico-economica della nostra società.

PROPRIO PARTENDO da questa constatazione sull’insieme dell’organizzazione sociale e della sua regolamentazione giuridica si arriva alla parte più intrigante del libro, quella in cui si affronta il ben più difficile quesito: come vanno definiti la femmina e il maschio? La diversità di collocazione sociale fra di loro è determinata solo dalla storia o ha anche una radice biologica? Dacia lo nega, ritiene anzi che in questo giudizio ci sia una componente razzista, Chiara mi pare più dubbiosa. Io credo che il dato biologico abbia un peso che non si deve ignorare, bisogna solo riscattarlo dall’idea, storica, che considera la natura femminile un disvalore, un segno di debolezza. Ma qui entriamo effettivamente su un terreno scivoloso, tanto più se si comincia a parlare di valori, attitudini, debolezze, dolcezza, generosità, tutti attributi in cui è difficile distinguere quanto sia dovuto alla storia e quanto alla natura. Mi hanno colpito le parole con cui Dacia interpreta la speciale capacità di cura e di attenzione all’altro delle donne che sarebbe effetto della repressione subita. E l’avrebbe indotta – scrive – ad un autocontrollo alla fine sublimato.

NEL LIBRO le due autrici raccontano anche quale sia stato l’itinerario che le ha rispettivamente condotte al femminismo. Risultano parecchio diversi, come accade quasi ogni volta si parli con chiunque vi sia approdata. Perché nonostante le molte lotte e esperienze comuni non si può dire che esista un movimento delle donne omogeneo e compatto. Il femminismo è questione così complessa, mette in discussione tante cose talmente introiettate da millenni, che non può esser compresso in una dimensione quale è quella di un’organizzazione. Basti pensare quanto di personale e difficilmente generalizzabile ci sia nel rapporto che ciascuna di noi ha con l’uomo, che è nemico che si deve combattere, ma anche amante.

Il travaglio che oggi vivono i maschi per effetto della nostra rivoluzione vincente non ci rallegra, il ritardo con cui ciascuno di loro vive per arrivare a ridefinire la propria identità fa, in definitiva, soffrire anche noi. Bisognerà aiutarli.

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