La retorica del primato rischia di perdere una nazione

 

di Beppe Severgnini

 

Per trasformare un evento sportivo di successo in un mezzo disastro reputazionale ci vuole del talento. E agli inglesi il talento non manca: neanche in occasione di un passo falso. Una nazione solida, organizzata e stoica, quando sbaglia, sbaglia in modo spettacolare.

La giovane squadra dei Tre Leoni è arrivata, per la prima volta nella sua storia, alla finale dei campionati Europei, giocata in casa davanti agli occhi del mondo. Un successo indiscutibile, offuscato da quanto è accaduto domenica 11 luglio. Riassumiamo per comodità: caos e incidenti intorno a Wembley, prima della partita con l’Italia; irruzione e prepotenze di tifosi senza biglietto; fischi durante l’inno di Mameli (fischiato anche l’inno tedesco, negli ottavi di finale); dopo la sconfitta, stizza dei giocatori inglesi, che si sfilano la medaglia d’argento; poi insulti razzisti sui social contro chi aveva fallito il rigore (Rashford, Sancho e Saka, tutt’e tre con la pelle scura). Domanda: era davvero imprevedibile? O invece la retorica nazionalista degli ultimi cinque anni ha giocato una parte? Brexit — votata nel 2016, realizzata nel 2020 — non è stata un epilogo: qualcuno l’ha presa come un’assoluzione, e l’inizio di una nuova epoca. Chi semina vento, raccoglie tempesta: anche in inglese esistono espressioni simili. You reap what you sow, si raccoglie ciò che si semina. What goes around, comes around, tutto torna indietro. Meno conosciuta, ma altrettanto efficace, You’ve made your bed, now lie in it, ti sei fatto il letto, ora accòmodati.

Ecco: quale letto hanno preparato i conservatori di Boris Johnson, negli ultimi cinque anni, ai connazionali? Certamente il Primo Ministro non avrebbe voluto nulla di quanto è accaduto: non lo sgarbo verso gli ospiti, non il ritorno degli hooligan, non la rinuncia al fair-play, non i rigurgiti razzisti. La sua formazione — Eton, Oxford, i classici e il giornalismo — è contraria a tutto questo. Ma le sue battute e i suoi paradossi, da alcuni, sono stati presi alla lettera. Il suo atteggiamento verso l’Unione Europea è sembrato, spesso, irridente. Il suo patriottismo, cinico e roboante, ha confuso molti. Anche durante questi Europei: se crei aspettative parossistiche, non puoi stupirti che la delusione sia rabbiosa.

Era così imprevedibile che l’eccessiva spavalderia dei tabloid — vogliamo chiamarla superbia? — riverberasse sui comportamenti di chi li legge? E sono ancora tanti, in Inghilterra: quelle prime pagine finiscono sui social, insieme agli slogan che le accompagnano. Non è braggadocio, sbruffoneria inoffensiva che si perdona volentieri. È un modo di convincersi, e di convincere, di essere i predestinati, al di là del calcio. L’Inghilterra ospita, ancora oggi, media eccellenti: questa settimana ne hanno dato prova con un’autocritica dolorosa. Ma, ogni tanto, anche qui sbuca l’atteggiamento di superiorità, quasi un riflesso automatico. The Economist — il miglior settimanale del mondo — ha scritto ieri, parlando del successo degli azzurri: «Una vittoria per l’idea europea, ma anche per la destra italiana». Un’affermazione di cui si fatica a capire il senso e lo scopo.

Questi campionati europei, e il gran finale giocato a Londra, non sono diventati per l’Inghilterra solo un motivo di festa collettiva, come le splendide Olimpiadi nel 2012, ma un’occasione di riscossa. Una riscossa di cui una grande nazione non dovrebbe aver bisogno. Il crescendo nazionalista dell’ultimo mese ha provocato fastidio in molti luoghi del mondo e sconcerto nelle altre nazioni del Regno Unito. Il plateale sostegno agli azzurri prima della finale — in Scozia, in Galles, in Irlanda del Nord — non era legato solo ad antiche rivalità sportive. Sembrava mostrare preoccupazioni del tutto nuove.

Alcuni episodi sono stati sconcertanti, quasi incomprensibili. Molti giocatori della Nazionale inglese sono ragazzi: il gesto di sfilarsi dal collo la medaglia d’argento poteva apparire impulsivo. Ma è diventato una sgradevole scelta di squadra, che ha sbalordito il mondo: non è quello che uno s’aspetta da chi ha inventato lo sport moderno. Ben più gravi, e assolutamente ingiustificabili, gli insulti razzisti sui social. La Premier League non è solo il miglior campionato del mondo, il più combattuto e appassionante, è anche il simbolo di un Paese compiutamente multietnico. Quanto è accaduto dopo la finale di Wembley è un autogol: per rimontare ci vorrà tempo.

Ogni società convive con i suoi fantasmi. ll fenomeno degli hooligan è stato a lungo motivo di imbarazzo, per l’Inghilterra. E di tragedie, purtroppo. Poi c’è stata la reazione, ammirevole. Una legislazione intelligente e il lavoro metodico della polizia avrebbero potuto poco, se il Paese — negli anni Novanta — non avesse deciso di dire «Basta!». L’attenzione in seguito si è abbassata: negli ultimi anni, istituzioni e politica sono state in altre faccende affaccendate. Così gli hooligan sono ricomparsi, più orribili di prima: all’alcol, oggi, si aggiunge la cocaina. Nessuno li ha incoraggiati. Ma non li ha nemmeno controllati e condannati.

Non è sempre gradevole ciò che si muove dentro la pancia delle nazioni: tutte, nessuna esclusa. Ma le gastroscopie sociali e politiche vanno eseguite, ogni tanto. Ai nuovi leader e ai nuovi movimenti — non solo in Inghilterra — dovremmo ricordare una cosa. Certi toni e certi temi — la retorica del primato, la contrapposizione etnica, la ricerca di avversari a ogni costo — possono far vincere le elezioni. Ma rischiano di perdere le nazioni.

 

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