La resilienza di un albero. Una foresta nello stadio. È la partita per il futuro

Sfide Installazione in Austria

 

L’antropizzazione di tutto quello che ci circonda è una pratica costante. Dai rapporti di parentela che intrecciamo con gli animali domestici alla personalità che attribuiamo a un’automobile, dagli umori che immaginiamo guidino gli astri alla psicologia con cui reagiscono le carte da gioco a ogni nostra scelta. Le piante non sfuggono certo a questa continua proiezione sull’altro delle nostre emozioni. Non è facile dare una definizione compiuta di coscienza, ma direi che le piante non hanno coscienza, piuttosto hanno una spiccata resilienza e questa ha ben poco di umano.

Nelle nostre mani subiscono angherie indicibili: sono lavagne dove incidere nomi di innamorati; pali a cui legare biciclette; orinatoi per cani; organismi da scuoiare per fare tappi di sughero per bottiglie di vino; tettoie per ombreggiare zone di ristoro costringendo le piante a violare qualunque legge di gravità; bonsai; giganti ridotti a nani (come le viti) perché possano produrre prelibatezze per noi; giganti ridotti a nani grassi per convertire un abete in una siepe di recinzione; giganti a cui abbiamo tagliato i piedi (le radici) per poterli infilare in vasi angusti per un mese l’anno e addobbare con assurde sfere colorate e lucine tanto nevrotizzanti che non li lasciano nemmeno riposare la notte; genitori che non vedranno mai un erede perché li abbiamo fatti accoppiare con altre piante da cui non si avranno semi fertili (peperoni, barbabietole, banane…); sostegni per altalene; per percorsi di equilibrismo e d’avventura. Un elenco che mai potrebbe essere esaustivo di tutte le malversazioni a cui costringiamo le piante e delle quali siamo convinti che mai se ne ricorderanno o si vendicheranno di noi aguzzini.

Le piante sono resilienti ai nostri maltrattamenti quando, per sbarazzarle dai parassiti, le spruzziamo con sgrassatori o puzzolenti infusi di aglio o di ortiche marce; quando le costringiamo a morire di sete in estate; o priviamo del sole le piante grasse rinchiudendole in casa in inverno o quando le torturiamo lasciandole vicine a un termosifone quando la poca luce invernale direbbe che è il momento di entrare in un fresco letargo. No, le piante non immagino abbiano una coscienza come la intendiamo noi. Ad esempio, loro a differenza nostra hanno un infinito numero di modi di riprodursi. Per talea, per margotta, per innesto, per fusione di fusti di specie diverse. Provate a tagliarvi un dito e vedete se immergendolo in un bicchiere di latte nasce un nuovo individuo: questa sarebbe una talea. Oppure scorticatevi un braccio e avvolgetelo in un impacco di mela tritata e biscotti della prima infanzia e vedete se spuntano gambe e piedi, ossia le radici (questa sarebbe una margotta).

Per gli innesti invece esiste tutta una letteratura mitologica. In sintesi gli innesti femminili sono leciti, immaginifici e sensuali: pensate alle sirene, innesti di ragazze procaci su bacino, organi genitali e arti inferiori di pesci. Ma fate lo stesso col corpo maschile e ne verranno mostri orrendi come il Minotauro. Ovidio fa un lungo e dettagliato elenco delle metamorfosi possibili e solo quelle maschili paiono impure. Da qui si comprende che le piante per noi sono tutte femmine e su di esse ogni nefandezza è lecita.

Poi le piante possono fare cose straordinarie rispetto agli animali. È molto facile da poche cellule riprodurre un’intera pianta, cosa riuscita per gli animali solo in parte con Dolly. Poi possono avere due vite, una come organismo frutto dell’unione tra una pianta maschile e una femminile, ma anche una vita come organismi derivanti da un solo sesso, come se uno spermatozoo avesse una sua esistenza indipendente prima di incontrare una cellula uovo. Eppure le piante seguono tutte le leggi della genetica, anzi è grazie a loro che Gregor Mendel, oltre 150 anni fa, svelò le leggi della genetica osservando le generazioni di piselli. Fedeli alle leggi della genetica e della selezione naturale, le piante compiono infiniti, continui tentativi di riprodursi e di colonizzare nuovi luoghi, nuove terre, nuove condizioni ambientali. Una profonda resilienza e sottomissione alle leggi della selezione delle specie di Charles Darwin.

Le piante e gli alberi diffondono i loro semi nei modi più sorprendenti e inventivi. Attirano con colori e dolci leccornie visitatori fugaci come le api e le imbrattano di infiniti granelli di polline (i loro spermatozoi), nella speranza che la stessa ape poi venga attratta da un fiore femminile a cui cedere i granuli pollinici. Oppure affidano i loro semi al vento per farli volare lontano e trovare terreni fertili: tentativi che riescono una volta ogni tanto, facendo decine di migliaia di prove. Per far volare lontano i semi allestiscono delle specie di mongolfiere, o delle specie di elicotteri, ma non solo. Fanno in modo che solo quando il veicolo che ha trasportato i semi si trova nelle giuste condizioni ambientali si schiuda. Ma nel farlo può o far esplodere i semi contenuti all’interno in modo che si disperdano al suolo l’uno lontano dall’altro, oppure il «veicolo», in genere un baccello, si rigonfi d’acqua toccando il suolo, ma in maniera asimmetrica. Ossia un lato si rigonfia, mentre l’altro resta più corto. In questo modo il veicolo da trasporto dei semi si ritorce sul lato che si rigonfia di meno e torcendosi agisce come una trivella che penetra nel suolo e deposita i semi sottoterra, al riparo da voraci predatori e all’umido per far schiudere i semi.

Piante o alberi hanno coscienza di questo? Hanno elaborato teorie sul passo della vite (quella che avvitiamo nel muro, non la pianta) che possa meglio penetrare nel terreno? Io non credo, penso stiano solo provando tutte le soluzioni possibili e solo le più efficaci vedranno premiata quella scelta consentendo a un maggior numero di nuove piante di dar vita alla nuova generazione. La loro coscienza coincide con la selezione delle specie, un meccanismo spietato e imprevedibile, illusorio ed effimero che si fa gioco delle nostre soluzioni e degli eredi che liberiamo in un mondo ostile e selettivo.

Gli alberi le hanno pensate tutte per poter dar vita a una nuova generazione lontano da loro, ossia dove i genitori non ostacolano la crescita della prole facendogli ombra o prelevando prima e meglio di loro acqua e nutrienti dal terreno. Hanno prodotto semi giganti per alimentare meglio le nuove piante, semi minuscoli per dare origine alle sequoie, semi inclusi in frutti dolci e gustosi che solo grossi animali potevano consumare: questo è il caso delle mele. Il frutto ha origine in Cina e, seguendo quella che decine di migliaia di anni dopo diventerà la Via della Seta, migrano verso Occidente. Ancora oggi le vestigia dei frutti ancestrali di melo si trovano sulla catena delle montagne celesti: il Tien Shan in Kazakistan. Ci sono foreste di meli selvatici della varietà Malus sieversii, un lontanissimo parente delle 7.500 varietà di mele che mangiamo oggi. Paradossalmente sono frutti grandi anche otto centimetri di diametro e la cosa non è abituale. Si crede che siano stati selezionati per essere consumati da orsi e cervi che percorrevano la Via della Seta ben prima degli umani. Gli animali consumavano le mele e disperdevano con le feci i semi anche a grade distanza dal luogo dove le avevano raccolte, aiutando così la diffusione dei meli selvatici. Poi, 12 mila anni fa, la via fu ostruita dall’ultima glaciazione e quando i ghiacci si sciolsero era apparso un nuovo despota dei destini dei semi: era nato l’uomo agricoltore.

Noi abbiamo proseguito in ben altro modo la diffusione dall’Oriente dei semi e delle piante di melo, di gelso (con inclusi i bachi), di ciliegio e di tantissime altre piante deportate a forza in climi anche ostili. Pensate solo che abbiamo costretto le piante di riso, una pianta tropicale, ad adattarsi ai rigidi inverni delle zone tra Pavia, Novara e Vercelli. Noi l’abbiamo fatto in maniera «cosciente», il riso si è adeguato in maniera resiliente. Infine ci sono semi che per colonizzare isole e terre lontane sono diventati semi galleggianti, e così le palme hanno colonizzato tante isole inesplorate. Certo anche Mosè neonato venne affidato alle acque, ma quello era un gesto dettato dall’incoscienza e dalla disperazione.

https://www.corriere.it › la-lettura