La propaganda e i moscerini di Putin

di Ezio Mauro
Come si misura la pubblica opinione in un Paese senza opinione pubblica? Rovesciando lo schema che seguiva la pratica esoterica della cremlinologia classica all’epoca dell’Urss, quando si scrutavano le foto dei membri del Politbjuro esposte sui cartelloni sulla Piazza Rossa per indovinare dalle posizioni nella fila l’ascesa e la disgrazia dei leader del Paese: oggi al contrario si cercano i segni nella società, gesti individuali di coraggio o embrioni di contestazione pubblica per individuare le piccole crepe che si stanno aprendo sotto la superficie compatta del sistema nel ventitreesimo anno russo sotto il segno del comando di Vladimir Putin.
Non è nel vertice infatti che matura l’opposizione. Vale anche nel 2022 la vecchia massima secondo cui lo Zar può essere soltanto sanguinario o insanguinato, e in questo momento lo Zar sta giocando l’intera sua partita sulla guerra, scegliendo il sangue altrui. Dunque la nomenklatura suprema è obbligata per autotutela a rimanere compatta fino alla fine attorno al Capo a cui deve il suo potere, salvo poi essere l’unica forza che nel momento decisivo — se ne cogliesse la necessità e l’occasione — potrebbe decretare la fine di un’epoca e operare la sostituzione.
Per il momento solo riposizionamenti tattici. Il Cremlino, che era impaziente e sbrigativo con chi aveva dubbi sull’ “operazione speciale”, si è prima irritato contro gli strateghi e gli informatori sul campo per il calcolo sbagliato sulla resistenza ucraina, per poi mostrarsi furibondo con “la feccia e i traditori, che il popolo russo sputerà via come moscerini che gli sono volati in bocca”. Nel blocco militare e poliziesco affiorano opzioni e diverse, con gli uomini dell’Fsb, eredi del Kgb, decisi a intensificare gli attacchi in Ucraina, gli ufficiali dell’Armata più prudenti dopo i riscontri avuti sul campo di battaglia. Gli oligarchi sotto attacco si mostrano divisi tra il calcolo dei danni ricevuti ogni giorno dalle sanzioni e la fedeltà promessa in eterno a Putin che li ha creati dal nulla. L’enorme burocrazia di Stato appare collegata per funzione e per inerzia con chi comanda, passiva ma interessata a incassare i dividendi di una rinascita dell’autorità dello Stato.
Restano i cittadini, difficili da decifrare in un Paese che non ha mai avuto uno spazio civico autonomo con una struttura d’opinione organizzata. Gli intellettuali tacciono, gli accademici reagiscono: 9 mila scienziati sottoscrivono una lettera aperta contro la guerra, mentre spuntano manifesti di condanna all’invasione scritti da informatici, economisti, studenti, insegnanti. Le manifestazioni in piazza hanno già portato a più di 15 mila arresti, le case dei dissidenti sono marchiate con una gigantesca “Z”, la censura lavora a pieno ritmo e i giornali sono costretti a uscire con le pagine bianche, a chiudere, a spostare le redazioni in esilio in Lettonia, nell’obbligo surreale di chiamare le cose viste con le parole scelte dal potere: che non potendo impedire ai cronisti di vedere, proibisce ai lettori di capire.
Il risultato è una società amputata ne ll’informazione, mutilata nella conoscenza. Come negli anni sovietici il cittadino deve cercare le notizie nei canali sotterranei, in un circuito clandestino dov’è difficile distinguere tra fatti, voci, disinformazioni, sospetti, pettegolezzi come quello sulla malattia di Putin. Nel vuoto, gli Organi di sicurezza rivelano che il loro vero talento non è spiare la realtà bensì ricrearla, reinventandola secondo il disegno del regime, cancellando e riscrivendo la cronaca ucraina della guerra.
Si chiama “deformazija”, distorsione. È un esperimento titanico con un’ambizione addirittura metafisica, perché la metamorfosi del reale operata dal regime non è un anestetico ma un investimento attivo, che coinvolge l’esperienza di ogni cittadino, sollecitandolo in modo che da quella visione discenda un giudizio morale e politico.
Questa reinterpretazione degli avvenimenti che devia il loro significato spontaneo verso un senso comune di Stato, arriva dopo che il Cremlino ha preparato il terreno, costruendo un sentimento collettivo del Paese, apparentemente neutro nei suoi elementi affondati nella tradizione, dunque pre-politico, nostalgico, popolare.
Putin è riuscito infatti nell’ultimo decennio a insediare nel Paese un nuovo pensiero russo di regime con basi filosofiche, su cui è cresciuta una dimensione culturale egemone, che ha sostituito la vecchia ideologia. Qualcosa doveva tenere insieme vecchia e nuova Russia, in un’ “iskrà” perenne, la scintilla sacra che nasce nell’antica Rus’di Kiev e arriva fino ad oggi, alimentata dalla regalità autocratica degli Zar, dall’imperialismo sovietico dei Segretari Generali, dalla tecnocrazia poliziesca e finanziaria oggi al potere: è il cemento del patriottismo leggendario, capace di fermare Hitler, unito con la vocazione militare di un popolo guerriero da mille anni, cui si aggiunge la tutela perpetua del potere da parte del Kgb sotto qualunque sigla, con la subordinazione popolare che ne deriva. Circonda il tutto il profumo d’incenso dell’ortodossia resuscitata da Putin (che oggi rivendica il suo battesimo cristiano da bambino), riconsacrata dal Cremlino dopo l’ateismo di Stato, elevata a custode dei valori tradizionali più conservatori, chiamata infine a benedire l’appartenenza “di carne e di sangue” alla Russia del popolo e della nazione, fusi nella stessa parola, “narod”.
Il punto zero della nuova realtà è la fine dell’Unione sovietica, che il presidente ha battezzato come “la più grande tragedia geopolitica del secolo”. Qui la separazione: Putin rifiuta il comunismo, “che porta alla stagnazione economica”, ma recupera il sovietismo come sistema di gestione imperiale del gigantesco potere creato dal bolscevismo nell’Europa dell’Est. Il restauro di quell’anima imperiale, con il conseguente rango mondiale di potenza, agisce da elemento di rassicurazione e risarcimento per la popolazione, dopo le frustrazioni seguite al ridimensionamento occidentale della Russia come entità sovrana di seconda fila. Alla Russia, come diceva invece il filosofo di riferimento di Putin, Ivan Aleksandrovic Ilyn, spetta invece il compito di redimere il mondo. E per esercitare questo compito occorre riconsegnare la Russia al suo destino, secondo il mandato che Aleksander Solgenitsin consegnò a Putin, quando il presidente andò a trovarlo a casa dopo il suo ritorno a Mosca, nell’incontro-simbolo tra la tradizione e il presente della Russia, d’accordo soprattutto su un punto: mantenere l’originalità russa, la sua differenza dalla “democrazia formale” dell’Europa, contro l’omologazione occidentale delle idee.
È il chiodo su cui il Cremlino batte da un decennio, trasformando questa concezione in pensiero diffuso, trasmutandolo in sentimento, tesaurizzandolo in egemonia. Da occidentali, bisogna continuare a credere che la realtà sia alla fine più forte della propaganda, e che se riuscirà a fare irruzione farà giustizia, attraverso la conoscenza dei fenomeni in corso, a partire dalla guerra.
Ma bisogna anche ricordare cosa dice il premio Nobel Dimitrij Muratov, direttore (senza giornale) della “Novaja Gazeta”: “La propaganda è come le radiazioni. Non è possibile stare vicino al blocco numero 4 della centrale nucleare di Cernobyl e non rimanere contaminati. Così non si può vivere in Russia e sfuggire agli effetti della propaganda”.
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