La profezia di Philip Roth

Serie tivù. David Simon e Ed Burns adattano il romanzo dello scrittore americano in cui l’ombra del nazismo si allunga sull’epoca di Trump. Ottimi John Turturro e Winona Ryder

Quando nel 2004 Philip Roth pubblicò Il complotto contro l’America (Einaudi, 2005), il titolo poteva sembrare un inganno, un’esca: non aveva nulla a che fare né con l’undici settembre, né con George W. Bush. Liberandosi dalla stretta dell’attualità, Roth aveva invece ambientato la sua storia in un passato ucronico, un mondo parallelo nel quale l’aviatore Charles Lindbergh batteva Roosvelt alle elezioni del 1940 e gli Stati Uniti restavano neutrali nella Seconda guerra mondiale.

Il Lindbergh storico ha davvero intrattenuto rapporti di cordiale amicizia con la Germania nazista, era uno dei membri più in vista del movimento “America First” e in un famoso discorso accusò “la razza ebraica” di voler spingere gli Stati Uniti verso una guerra che doveva restare un problema europeo. Nel romanzo l’aviatore fa il passo successivo: ottiene inaspettatamente la nomination del partito repubblicano, vince a valanga le elezioni – nonostante all’inizio molti lo avessero sottovalutato: «non è un politico, è solo un pilota con delle opinioni» – e da presidente stringe un patto di non aggressione con Hitler, arrivando addirittura a lodarlo per l’attacco all’Unione Sovietica, il vero nemico comune. Fomentato da un’amministrazione accondiscendente, l’antisemitismo strisciante prende corpo e rende sempre più impossibile la vita degli ebrei americani, fino all’esplosione di violenze e persecuzioni. Al tempo la speculazione di Roth era stata letta come interessante e fantasiosa ipotesi. Sedici anni dopo, con un secondo mandato Trump all’orizzonte e rigurgiti antisemiti in emersione un po’ ovunque, è impossibile non leggerla come un’inquietante profezia. Roth ha detto più volte che il suo Lindbergh non va confuso con Trump, ma era davvero difficile per l’adattamento realizzato da David Simon (The Wire, Treme, The Deuce) ed Ed Burns – su HBO dal 16 marzo, su Sky Atlantic in estate – evitare di spingere l’acceleratore sulla nuova rilevanza assunta da questa storia. Quando un imprenditore viene accusato di essere indifferente alle porcate che il presidente sta facendo, perché tanto “l’economia cresce”, è impossibile non pensare al momento attuale.

La miniserie di sei puntate del Complotto, però, è altra cosa rispetto ad altre ucronie come Il racconto dell’ancella o a L’uomo nell’alto castello; innanzitutto per il suo rapporto più ambiguo con il piano della realtà: è scritto come un memoir di un personaggio chiamato Philip Roth, che a che all’epoca dei fatti ha sette anni e vive con la sua famiglia a Weequahic (Newark), nella stessa strada in cui risiedeva la reale famiglia Roth. Qui inoltre, non c’è nessuno scontro epico tra bene e male, la discesa nella distopia viene vissuta un passo alla volta, dall’interno di una famiglia come tante, che si scopre straniera in quella che considerava la propria patria. La serie diventa l’incontro tra due grandi narratori, molto diversi tra loro: Roth era un appassionato di storia, ma la sua scrittura si immerge nella coscienza individuale; Simon da sempre indaga la visione d’insieme, il funzionamento macroscopico dei sistemi sociali. Se il primo filtrava l’intero racconto attraverso il suo alter ego bambino, la serie allarga lo sguardo e spersonalizza la prospettiva, allontanandosi spesso da Newark e dal nucleo familiare dei Levin (così è ribattezzata la famiglia Roth). Il centro della scena è inevitabilmente preso da Herman (Morgan Spector), padre di Philip ed eroe simoniano riconoscibilissimo, nella sua testarda incapacità di capire che è impossibile mettersi di traverso alla Storia e che sarebbe molto meglio rifugiarsi in Canada.

Herman ascolta dalla radio le appassionate invettive di Walter Winchell contro Lindberg, gli sembra che le parole siano sufficienti a rimettere le cose a posto e per questo non riesce mai a stare zitto, neanche quando dovrebbe. Il suo necessario contraltare è il rabbino Bengelsdorf (al quale l’interpretazione di John Turturro infonde grande carisma), che invece impegna tutte le sue ampie risorse culturali per giustificare l’ingiustificabile e facendo, nel frattempo, un vertiginoso scatto in avanti ai piani alti della società. Gli altri interpreti, Winona Ryder, Anthony Boyle e Zoe Kazan sono bravi a mettere in risalto il tema fondamentale, ovvero l’adattamento al cambiamento culturale cui i protagonisti reagiscono in modo assai diverso, proprio come accadeva nel libro.

L’abituale rigore sovietico che caratterizzava l’aspetto visivo delle vecchie serie di Simon, come The Wire e Treme, si apre invece a una messa in scena lussuosa e attentissima al dettaglio d’epoca, come era già accaduto in The Deuce,con una regia – affidata ai veterani Minkie Spiro e Thomas Schlamme – a volte anche più volteggiante del necessario. Simon aveva ricevuto la proposta di adattare il Complotto già nel 2013, ma al tempo c’era Obama e l’idea gli era sembrata inattuale. Pochi anni dopo tutto è cambiato, e lui stesso ha riportato alla luce il progetto. Chissà se, quando arriverà nell’estate in Italia, questa serie sembrerà non riguardarci più. Non dovrebbe accadere: la pandemia ha sconvolto la nostra percezione del mondo, ma il tempo ha dimostrato che un demagogo pronto a fomentare l’odio verso qualcun altro è sempre dietro l’angolo.

 

Il complotto contro l’America

David Simon e Ed Burns

su HBO in America e dall’estate in Italia su Sky Atlantic

 

Gianluigi Rossini

«Il complotto contro l’America».  John Turturro è il rabbino Bengelsdorf