La povertà e i giovani.

Il segno più tangibile lasciato sul corpo della nostra società dalla più grave e lunga recessione del dopoguerra sta proprio in quel quarto di popolazione a rischio povertà che la Banca d’Italia ha rilevato nella sua indagine sui bilanci delle famiglie, quel 23% di individui costretto a vivere con meno di 830 euro al mese a testa. Erano il 19,6% nel 2006, prima che lo tsunami finanziario ed economico sconvolgesse l’Occidente intero. Quel poco che sono riuscite a fare le misure di redistribuzione avviate negli ultimi anni non ha purtroppo invertito la tendenza. Il macigno della povertà è rimasto intatto o è addirittura cresciuto, e con esso si è allargato il divario tra classi agiate e classi deboli. E se è vero che rispetto al 2014 il reddito medio delle famiglie è cresciuto del 3,5%, siamo ancora undici punti sotto i livelli pre-crisi.

Occupazione, produzione, fatturato, Pil: solo in piccola parte il segno “più” davanti a tutte queste variabili, dopo anni di crolli, è stato percepito dalle famiglie italiane, ha cioè gonfiato i loro portafogli. Le statistiche favorevoli non hanno riequilibrato una bilancia sociale sempre più obliqua e pericolante. E questo coacervo di squilibri e disagi ha inevitabilmente pesato sugli esiti elettorali. È su di esso che ora si misura la capacità dei partiti, a cominciare dai vincenti, di rendere realistiche le loro promesse, di tradurre in misure finanziariamente compatibili gli impegni presi con gli elettori.

Il primo dilemma riguarda il reddito di cittadinanza, il vero cavallo di battaglia della campagna grillina. Sgomberato il campo da un equivoco lessicale sul quale i Cinquestelle hanno giocato non poco (non si tratta di un reddito per tutti i cittadini ma solo per disoccupati e individui sotto la soglia di povertà), il primo problema è quello dell’importo e dell’estensione di questa misura. E quindi del suo costo. Le stime oscillano tra i 15 e i 30 miliardi, circa dieci volte quanto lo Stato pagherà per il reddito di inclusione, introdotto dagli ultimi governi e già in vigore. Ora, che sia indispensabile rafforzare questo reddito, che copre circa metà dei 4,6 milioni di poveri, è del tutto evidente. Ma è altrettanto evidente che moltiplicare per dieci il relativo onere è operazione assolutamente impraticabile.

E tuttavia, non è solo una questione di costi. Anche nella proposta grillina, come nel reddito di inclusione, il sussidio è sulla carta condizionato all’accettazione di un percorso formativo e di inserimento al lavoro. Altrimenti, diventerebbe un sussidio vita natural durante. Il rispetto di queste condizioni, tuttavia, viene caricato sulle spalle dei Centri per l’impiego, organismi per lo più fallimentari (soprattutto al Sud), con pochi addetti, e soprattutto privi di quelle competenze e di quegli strumenti in grado di incrociare realmente domanda e offerta di lavoro. Per di più, dopo la bocciatura della riforma costituzionale, questi centri sono rimasti in capo alle Regioni, e ciò impedisce di realizzare una vera politica nazionale. Ovviamente, lo stesso problema si pone per il reddito di inclusione già in vigore, così come per qualunque altra proposta del genere.

C’è infine un ultimo nodo da sciogliere. Quel 23% medio di persone a rischio di povertà in Italia diventa il 30% tra gli under 45 e quasi il 40% al Sud. Mentre è in diminuzione tra gli anziani. A questo punto è doveroso chiedersi se l’introduzione di un reddito minimo, anche più sostanzioso di quello attuale e a favore soprattutto dei giovani, sia compatibile con le promesse fatte dalle stesse forze politiche di abolire la riforma Fornero per avvantaggiare i lavoratori più anziani che vogliono andare in pensione prima. Con un costo che si riverserebbe tutto sulle spalle degli stessi giovani.

Fonte: La Repubblica, www.repubblica.it/