Dune non è un capolavoro. Gli ambienti e i costumi ricordano il ciclo di “Star Wars” e quello del “Signore degli Anelli”; gli edifici sono tratti da Blade Runner 2049; i cattivi sono sempre più cattivi e gli eroi sempre più inquieti, in fondo un calco del già visto (Paul Atreides/Timothée Chalamet pare il gemello di Kylo Ren/Adam Driver). Le scene oniriche – la ragazza del deserto che cammina sul ciglio di una duna, guardandoti con gli occhi blu – sembrano la pubblicità di un profumo; quelle omeriche non vanno oltre la didascalia di ‘genere’. La ‘filosofia’ del film è fatua: in fondo, tutto si riduce a immense astronavi, grandi battaglie, varia avidità. La quinta fonde il Medioevo con la tecnologia avanzata. Di questo, comunque, molti hanno scritto, diranno i critici, chi traffica col cinema.

L’aspetto rilevante, sottile, sottocutaneo, è altro. Chiamiamolo, il messaggio ‘politico’ di Dune. Il nostro è il tempo che decapita il potere, che si regge su una uguaglianza avvelenata, falsa, secondo cui tutti possono tutto – quando, supini, poveri, mediocri, nulla possiamo. Il potere è ‘accessibile’, domestico: un politico, perché ci si ricordi di lui, deve passare in tivù ogni giorno. Questo è il tempo che non rispetta i ruoli, che tenta di ribaltarli, nel piccolo – che cosa significa autorità? – come nel grande – le grandi inchieste che smutandano gli affari illeciti dei potentati pubblici, i Pandora Papers, ad esempio, che svelano “i tesori nei paradisi fiscali di 35 capi di Stato e di governo e migliaia di vip”. È il tempo della rabbia sociale incanalata nei social (area, in fondo, innocua); della sopraffazione finanziaria; delle parate ipocrite (Draghi che a favore di telecamera incontra Greta Thunberg). È il tempo di un irenismo di facciata – a nessuno piace la guerra, pare – e di una violenza infida, continua; del moralismo diffuso, del delirio della purezza etica (leggi: cancel culture); del potere concesso dai soldi e non dalla schiatta, dell’ecologismo ideologizzato, dello sputtanamento, in Occidente, della religione, che non ha presa, è presa, semmai, per fatto culturale, per collante sociale o affare parlamentare, depravata nella verità, priva di un fascino autenticamente persuasivo, che pervade la vita.

Il mondo proposto da Dune è esattamente contrario al nostro:

a) Il potere è ereditario, divulgato per vasti casati, nell’ambito di un impero;

b) Per mantenere il potere bisogna fare la guerra. Tutti uccidono; l’esecuzione è prassi comune; l’integrazione, per dire, è concetto insostenibile. Vige il concubinaggio, per quanto sagace, la donna è sottoposta al re. Esistono i riti: si è accolti dopo una prova, che di solito riguarda un’uccisione;

c) La religione è il fondamento: potere che fa schermo al potere mondano, transitorio. Il ‘religioso’ permea ogni lato del cosmo di Dune: i religiosi sono consiglieri e strateghi. La disciplina spirituale concede una potenza superiore a ogni potere, che ha rilievo preponderante nella storia. Oltre al rito ha valore la profezia, inaccessibile ai profani;

d) La preminenza del segreto sull’informazione: non esiste la ‘cronaca’ ma la cronica ambizione a leggere in controluce ogni sussurro, ogni sogno. Ecco: il sogno ha un valore equivalente al fatto.

Bene: che ci frega? Tutto, dacché l’immaginario filmico, da sempre, non è mero intrattenimento: stimola, solletica, lecca i nostri desideri profondi. In effetti, la democrazia non attrae più – se non per la sua conclamata corruzione. Siamo circondati da piccoli e grandi ‘imperi’ – Usa, Russia, Cina, Turchia, Corea – spesso a gestione ‘familiare’, per lo meno familistica. All’Europa unita – unione di affaristi e di etica spuria, a spot – preferiremmo il Sacro Romano Impero. Fideisti, aperti a ogni panzana, non crediamo nell’informazione – nella delazione, semmai. La religione ‘tradizionale’ ci urta, le chiese sono sbadigli vuoti, abbiamo venduto l’anima per una manciata di euro, ma ci infiammiamo per qualsiasi fede: c’è chi denigra le tradizioni islamiche ma crede nella scienza, una contraddizione in termini. Ci imbarazza la guerra, ci fanno orrore le decapitazioni televisive, ma confidiamo nella guerriglia e scarichiamo video che mostrano le peggiori efferatezze, famelici, almeno, di sangue digitale; desideriamo la sovversione del consueto. Preferiamo l’epopea di Dune al deserto quotidiano, alla desertificazione dell’individuo in virtù di un individualismo vacuo, vano, beota, senza scopo. Al reame della protezione di massa – la vita profilata, profilattica – sapremmo ancora preferire il brivido del rischio, il bivio delle scelte ultime?

C’è poi, sotterraneo, ubiquo, il messianismo, l’idea dell’uomo solo, eletto dal miracolo, che ricompone l’equilibrio perduto, che retrodata il male all’eden, la cui azione, tuttavia, è ambigua, spesso incredibile, non creduta, mai biecamente storica. Nel mondo di Dune il messia si chiama Kwisatz Haderach; lo storico Henri-Irénée Marrou, in un saggio brillante, La fine del mondo non è per domani, insegna che la Storia è costellata di messia fasulli, e che le masse si governano maneggiando la paura e una specie di speranza disperata. Continuiamo ad attendere. Il botteghino, intanto, incassa.