di Stefano Bucci
Il grande maestro dell’architettura minimale sembra aver scelto i 19mila metri quadrati del suo nuovo progetto made in Milano, quello della Fondazione Prada di Largo Isarco, per trasformare in realtà la sua idea del «fare architettura» oggi, ma anche un modo «altro» di essere collezionisti, mecenati, o più semplicemente cittadini. L’olandese Rem Koolhaas (classe 1944), con il suo studio Oma, ha già firmato edifici che hanno fatto storia (la Casa da musica di Porto nel 2005, la sede della China Central Television di Pechino nel 2011) oltre ad aver vinto il Pritzker Prize (alias Nobel dell’architettura) nel 2000 e il Leone d’oro alla Biennale di Venezia nel 2010, quella stessa Biennale che avrebbe poi diretto nel 2014.
Eppure, intervistato dal «Corriere», non nasconde una genuina soddisfazione per questa sfida secondo lui ampiamente vinta, ancora una volta in collaborazione con Prada (suo il progetto per la sede veneziana della Fondazione a Ca’ Corner della Regina, suo quello per lo store di Soho a New York). La nuova Fondazione presentata ieri alla stampa sarà aperta ufficialmente al pubblico sabato prossimo e ha ancora l’apparenza di un grande cantiere in corso («Quando l’Expo sarà finito noi saremo ancora al lavoro» assicura Koolhaas), ma già sorprende per la sequenza di ambienti destinati ad ospitare la collezione d’arte della Fondazione, ma anche «altro» : in progetto c’è anche una biblioteca aperta giorno e notte, proprio sotto al Bar Luce ideato da Wes Anderson e molto vicino al cinema dove si proietterà un documentario di Roman Polanski.
Impressionanti, ad esempio, il grande deposito con le auto di Sarah Lucas, Turn into me di Nathalie Djurberg contrapposto alla ricostruzione di uno studiolo quattrocentesco, l’inquietante Love lost di Damien Hirst idealmente messo a confronto con la Battaglia di Lucio Fontana, un fregio in ceramica policroma che Lucio Fontana aveva realizzato nel 1948 per il Cinema Arlecchino di Milano. Oltre all’area per mostre temporanee che si inaugura con Serial Classic curata da Salvatore Settis dove discoboli, Veneri accovacciate, Cariatidi e Apolli dialogano (in originale o in copia) con una struttura marcatamente high-tech.
Come è riuscito a trasformare un’ex-distilleria dei primi del Novecento, anonima e senza particolari qualità, in uno spazio per le arti che si preannuncia invece ricco di sorprese e soprattutto di capolavori?
«Vecchio e nuovo, povero e ricco, classico e contemporaneo, bello e brutto: per troppo tempo si è voluto giocare tutto sulla contrapposizione, anche in architettura. E qui, mi creda, sarebbe stato molto facile e molto meno rischioso esasperare al massimo il contrasto tra l’estrema semplicità, per non dire il degrado, dei magazzini, dei laboratori, dei silos preesistenti e il glamour di nuove strutture più esasperate e plateali di questa».
Invece?
«Invece abbiamo cercato di fare coesistere le differenze nel modo più equilibrato possibile. Abbiamo risanato i vecchi edifici che non erano particolarmente speciali senza però stravolgerli e ne abbiamo anche creati di nuovi più tranquilli, utilizzando comunque materiali incredibilmente inusuali come la schiuma d’alluminio, di solito utilizzata per scopi militari, con cui abbiamo rivestito la struttura che ospita la mostra dei classici scelti dal professor Settis».
Dunque, un gioco di confronti, più che di contrasti?
«Proprio così. Perché questo non vuole essere un progetto solo di conservazione e nemmeno il semplice progetto per una nuova architettura. Potremmo chiamarlo piuttosto un repertorio molto complesso di ambienti, dalla torre al cinema, e di materiali, dal plexiglas al travertino dell’Iran, che vuole essere originale, complesso e ricco quanto lo è la collezione artistica della Fondazione».
Lei parla di equilibrio, eppure non ha esitato a ricoprire di foglie d’oro una torre che svetta su un panorama urbano fatto di edifici industriali e casermoni popolari.
«La torre d’oro vuole essere solo un segnale, un modo per far capire la ricchezza di questa parte poco conosciuta della città, un ulteriore invito al confronto. Perché, ne sono convinto, l’arte, l’architettura e la cultura in generale possono solo trarre beneficio dal confronto. La filosofia alla base di questa Fondazione è che non ci devono essere più opposti, che è giusto scegliere la via di convivenza pacifica tra gli estremi. Per farlo capire ho pensato che l’oro, il simbolo più evidente della ricchezza, potesse essere lo strumento più efficace: é bastato solo utilizzarlo per dare valore a quello che c’era prima, per trasformare quello che era povero in ricco».
Per questo ha rivestito d’oro anche la terrazza che si affaccia sulla stazione di Porta Romana e ha utilizzato insegne luminose raffinatissime per segnalare la presenza della Fondazione a chi arriva a Largo Isarco. Che impressione le ha fatto scoprire quest’altra parte di Milano?
«Sono stato onorato di aver potuto lavorare qui, come sono stato fortunato ad aver avuto a disposizione questi spazi. E non tanto perché ho potuto lavorare su un progetto affascinante, quanto perché sono assolutamente convinto che qui, nella periferia sud della città, ci sia la vera Milano, quella che lavora, quella dell’industria, quella lontana anni luce dal glamour e dal culto dell’immagine. Milano e una città difficile da definire nella sua complessità. Non è vero che sia poco artistica, tutt’altro. Milano è un luogo dalle incredibili competenze artistiche, dove ci sono collezionisti di livello internazionali. E poi Lucio Fontana, tanto per parlare di artisti, non ha vissuto proprio qui?».
La nuova Fondazione Prada non rischia di rimanere una cattedrale nel deserto se il recupero del quartiere non dovesse decollare?
«Il progetto potrà dirsi riuscito solo quando porterà benefici reali anche ai cittadini. Appunto per questo il rapporto con il resto del quartiere sarà essenziale. Mi piacerebbe che la parte fashion di Milano restituisse qui quello che ha ricevuto dal resto della città nel corso degli anni».
Cosa vorrebbe che diventassero questi spazi?