O forse, il ministro sapeva benissimo tutto questo, ma ha deciso di ignorarlo, perché lui si muove in una dimensione metafisica, dove la realtà conta meno della sua percezione e il razionale è sovrastato dal fantasmatico. Salvini vuole portare la questione a Innsbruck, al tavolo dei ministri dell’Interno, inutilmente perché come gli ricorda la ministra della Difesa Trenta non ha nessuna competenza in materia. Ma che importa? Sul piano della realtà i suoi colleghi tedeschi e austriaci stanno pensando addirittura di chiudere le frontiere con l’Italia, perché il sovranismo si morde la coda: anzi in realtà finisce sempre per mordere la nostra. Ma sul piano mediatico, nel respiro corto delle battute da social network o da telegiornale passa l’idea di un Paese che vive sotto la minaccia sospesa di un’invasione incombente, un Paese continuamente sollecitato sulla coppia migrazione-sicurezza, tenuto in uno stato continuo di eccitazione. Come se vivesse costantemente con un microfono davanti, interrogato sempre dalla stessa domanda: hai paura di avere paura?
Non si parla d’altro. Evocata, coltivata, distribuita, mai messa in discussione, la paura è ormai un punto fermo del discorso pubblico italiano, pilastro della nuova politica che ne è ipnotizzata, invece di valutarne le reali proporzioni, di indagarne le vere cause: le migrazioni, certo, ma anche la crisi più lunga del secolo, il lavoro che non c’è, la precarietà, lo spaesamento di chi si trova globalizzato a casa propria. Il problema è che tutto questo sentimento di solitudine del cittadino, che si sente non rappresentato, non più coperto dalla politica, con il mondo fuori controllo, precipita nel tentativo di ottenere un patronato qualsiasi.
Non c’è più una cultura politica che sappia interpretare queste fragilità disperse, queste individualità dimenticate, riconducendole dentro un discorso collettivo, trasformando singole frustrazioni e aspirazioni private in una causa comune. Si cerca almeno un approdo politico che garantisca protezione. O addirittura qualcosa di meno, ma ancor più indispensabile nel deserto sociale in cui viviamo: un segno di riconoscimento nella solitudine italiana.
Paure, inquietudini e frustrazioni hanno trovato nei due populismi della Lega e dei Cinque Stelle una miscela perfetta per dare corpo a uno spirito di destra latente nel Paese che oggi si è sdoganato anche nel linguaggio, nei comportamenti, nell’inversione morale, rispetto alla tradizione italiana di solidarietà e di accoglienza. Un populismo di governo che ha la forma della ribellione, la sostanza della conservazione, cioè della chiusura al mondo, perché basato sulla paura di tutto ciò che si muove tra i confini. È tipico dei populismi, a ogni latitudine e in ogni epoca, varare anche interventi sociali minori: ma è evidente che la cifra di destra e la dominante di tutta l’azione di governo è la politica salviniana sui migranti, che non è una vera politica, ma un pugno di ferro calato sul tavolo dell’Europa e sulla storia e sulla cultura del nostro Paese. Con Di Maio ridotto a junior partner consenziente e sorridente, per non parlare del presidente del Consiglio, tirato fuori dall’armadio salviniano quando c’è un vertice internazionale, dove palesemente deve illustrare e difendere politiche altrui.
Questo accade quando un partito-slogan (il movimento Cinque Stelle) firmando un’alleanza-competizione con un partito-storia (la Lega) diventa per forza di cose recipiente e rimorchio di contenuti altrui, che non ha né la cultura né l’esperienza per mediare politicamente. Partito-tutto, per scelta del suo fondatore che lo ha voluto ibrido per cacciare voti in tutti i territori, rischia di diventare un partito-nulla in termini di consistenza politica una volta esauriti gli slogan, mentre Salvini inclina sempre più ferocemente a destra la sua natura irrisolta. Sembra che il ministro dell’Interno abbia scommesso su una sorta di brutalità programmatica, che evidentemente non era nel contratto ma è nel rapporto di forza, una specie di crudeltà virtuale e di inclemenza politica insistita perché oggi l’impietoso è un plusvalore, produce sicuro reddito al banco di una politica impazzita, che riduce se stessa all’immagine di una ruspa – da usare contro uomini ridotti a ingombro – stampata su una felpa.
Se tutto questo si sta saldando in un nuovo senso comune italiano, la colpa è anche nostra. Degli intellettuali troppo succubi alla predicazione della paura, mentre dovrebbero riattivare una pubblica opinione autonoma, indipendente e critica, difendendo il pensiero liberale sotto attacco. Della sinistra, che si è ritirata dal sociale lasciando il forgotten man solo nella nube del suo risentimento, stufo di sentire un racconto intessuto di soli successi, nell’esaltazione di sole eccellenze, all’inseguimento di soli padroni. Oggi, mentre intorno tutto è pioggia e destra, c’è uno spazio di responsabilità, di civiltà, di ragionevolezza che va ben oltre la sinistra (per fortuna), ma che tocca alla sinistra animare e organizzare, perché il campo è vuoto.
Sta facendo qualcosa di simile, la sinistra, o almeno si rende conto che può essere una leva politica utile al Paese per invertire il discorso pubblico? No. Da mesi rimanda persino la scelta del suo leader con le primarie, come se per un partito agonizzante la leadership piena, effettiva e legittimata fosse un optional. E qualcuno tra i vecchi capi si muove come se avesse la kryptonite in tasca, usando la forza per minacciare i suoi compagni, preoccupato soltanto di indebolire ogni possibile candidato che si avanzi all’orizzonte, pur di tenere le mani su una “roba” che non c’è ormai più, e rischia di sparire definitivamente.
Fare qualcosa non per sé, ma per il Paese in quest’epoca di egoismo politico, giocando un ruolo di responsabilità nazionale con i piccoli numeri che si ritrova in mano. Per la sinistra è una chance straordinaria. Sicuramente immeritata: probabilmente l’ultima.