LA PARTITA OBBLIGATORIA DELLA SINISTRA.

 

L’editoriale
C’è una semplice domanda, prima di precipitare dentro il vortice della campagna elettorale: chi è il nemico? Altro che il giochetto di società nato su una scelta irrealistica tra Di Maio e Berlusconi: no, c’è una scelta concreta e decisiva, da fare per di più qui e ora.
Le due sinistre devono rassegnarsi a perdere la Lombardia (e il Lazio), marciando divise, oppure possono provare a vincere, convergendo su un unico candidato da sostenere contro la destra? Proprio la destra dovrebbe essere il logico, naturale avversario di qualunque sinistra, comunque si chiami e per qualunque ragione sia nata, cent’anni fa o l’altro ieri.
La destra di oggi in particolare, con Trump che mette addirittura in crisi il pensiero liberale curvando l’orizzonte dell’Occidente. La destra italiana ancor più, con il lepenismo fuori stagione di Salvini, il sovranismo nostalgico di Meloni, il moderatismo dei giorni dispari di Berlusconi, che per vent’anni ha radicalizzato come mai prima il concetto di destra post-fascista italiana, e adesso sembra Cavour stravolto da Crozza.
I segue dalla prima pagina Si dà il caso – naturalmente senza alcun merito della sinistra – che l’opzione vittoriosa della destra sulle prossime elezioni s’incrini proprio nello scrigno leggendario del forzaleghismo, cioè nel cuore dell’alleanza, la Lombardia. Per ragioni sue personali (probabilmente, come ha capito Stefano Folli, per entrare nella riserva di destra della Repubblica in questo turno elettorale inconcludente, e guardare al dopo) il governatore in carica, Roberto Maroni, ha scelto di uscire definitivamente dal Pirellone, e di non candidarsi. Questa scelta indebolisce la coalizione berluscon-salviniana, perché a poca distanza dal voto la priva di una candidatura naturale, forte anche per il peso che chi governa porta in campagna elettorale. E infatti, sono partiti i giochi interni al centrodestra, le ambizioni, i veti, le candidature-civetta, la riffa dei sondaggi. E ai quattro alleati posticci, uniti soltanto dalla vista del traguardo, è ben chiaro che toccare la Lombardia significa rimettere pesantemente mano a tutto il dòmino delle cariche, delle spartizioni e dei posti.
Tutto questo è talmente evidente che avrebbe già dovuto provocare un incontro tra i leader di “Liberi e uguali” e del Pd, o almeno una telefonata tra Grasso e Renzi. Per dire che la partita resta difficile, ma forse si può provare a scendere in campo – diversi e distanti – per vincerla insieme. In ogni caso, e soprattutto, la partita è obbligatoria. La Lombardia è la regione più importante del Paese in termini di produzione del reddito, è un’area pilota, concentra innovazione, finanza, tecnologia, futuro e soprattutto lavoro, per la politica è una bandiera che da sola vale l’intera campagna elettorale. Battere Berlusconi a Milano, periferia di Arcore? Improbabile, ma vale la pena provarci. Sconfiggere Salvini nelle valli lombarde dov’è nato il mito originario leghista, poi deviato in nazionalismo ideologico? Difficile, ma si può almeno tentare. Non risulta che i telefoni abbiano suonato. Renzi passa le sue giornate a parlar male della sinistra alla sua sinistra, con una pervicacia che non ha mai impiegato nei confronti di Berlusconi: stiamo ancora aspettando un suo giudizio politico compiuto sul Cavaliere, lo attendiamo da vent’anni. Grasso probabilmente deve fare mille telefonate ai suoi prima di poter chiamare il Pd. È un uomo che ha onorato le istituzioni, ma come leader è la risultante di politiche altrui, e dunque non può avere l’estro, la fantasia e la libertà di chi decide in proprio. Così i telefoni tacciono, i giorni passano, le occasioni sfioriscono nell’eterna maledizione della sinistra: meglio perdere, piuttosto che prevalga il mio compagno, da cui mi divide tutto, e soprattutto il rischio della vittoria.
Le scissioni hanno anche questa lunga coda buia di odio, che acceca come la luce. Ma così, rischia di esserci una scissione finale, quella dal cosiddetto popolo di sinistra. Che a differenza del ceto politico sa che si può marciare divisi e colpire uniti: almeno qualche volta. Perché ha ben chiaro chi è il nemico
L’editoriale
C’è una semplice domanda, prima di precipitare dentro il vortice della campagna elettorale: chi è il nemico? Altro che il giochetto di società nato su una scelta irrealistica tra Di Maio e Berlusconi: no, c’è una scelta concreta e decisiva, da fare per di più qui e ora.
Le due sinistre devono rassegnarsi a perdere la Lombardia (e il Lazio), marciando divise, oppure possono provare a vincere, convergendo su un unico candidato da sostenere contro la destra? Proprio la destra dovrebbe essere il logico, naturale avversario di qualunque sinistra, comunque si chiami e per qualunque ragione sia nata, cent’anni fa o l’altro ieri.
La destra di oggi in particolare, con Trump che mette addirittura in crisi il pensiero liberale curvando l’orizzonte dell’Occidente. La destra italiana ancor più, con il lepenismo fuori stagione di Salvini, il sovranismo nostalgico di Meloni, il moderatismo dei giorni dispari di Berlusconi, che per vent’anni ha radicalizzato come mai prima il concetto di destra post-fascista italiana, e adesso sembra Cavour stravolto da Crozza.
I segue dalla prima pagina Si dà il caso – naturalmente senza alcun merito della sinistra – che l’opzione vittoriosa della destra sulle prossime elezioni s’incrini proprio nello scrigno leggendario del forzaleghismo, cioè nel cuore dell’alleanza, la Lombardia. Per ragioni sue personali (probabilmente, come ha capito Stefano Folli, per entrare nella riserva di destra della Repubblica in questo turno elettorale inconcludente, e guardare al dopo) il governatore in carica, Roberto Maroni, ha scelto di uscire definitivamente dal Pirellone, e di non candidarsi. Questa scelta indebolisce la coalizione berluscon-salviniana, perché a poca distanza dal voto la priva di una candidatura naturale, forte anche per il peso che chi governa porta in campagna elettorale. E infatti, sono partiti i giochi interni al centrodestra, le ambizioni, i veti, le candidature-civetta, la riffa dei sondaggi. E ai quattro alleati posticci, uniti soltanto dalla vista del traguardo, è ben chiaro che toccare la Lombardia significa rimettere pesantemente mano a tutto il dòmino delle cariche, delle spartizioni e dei posti.
Tutto questo è talmente evidente che avrebbe già dovuto provocare un incontro tra i leader di “Liberi e uguali” e del Pd, o almeno una telefonata tra Grasso e Renzi. Per dire che la partita resta difficile, ma forse si può provare a scendere in campo – diversi e distanti – per vincerla insieme. In ogni caso, e soprattutto, la partita è obbligatoria. La Lombardia è la regione più importante del Paese in termini di produzione del reddito, è un’area pilota, concentra innovazione, finanza, tecnologia, futuro e soprattutto lavoro, per la politica è una bandiera che da sola vale l’intera campagna elettorale. Battere Berlusconi a Milano, periferia di Arcore? Improbabile, ma vale la pena provarci. Sconfiggere Salvini nelle valli lombarde dov’è nato il mito originario leghista, poi deviato in nazionalismo ideologico? Difficile, ma si può almeno tentare. Non risulta che i telefoni abbiano suonato. Renzi passa le sue giornate a parlar male della sinistra alla sua sinistra, con una pervicacia che non ha mai impiegato nei confronti di Berlusconi: stiamo ancora aspettando un suo giudizio politico compiuto sul Cavaliere, lo attendiamo da vent’anni. Grasso probabilmente deve fare mille telefonate ai suoi prima di poter chiamare il Pd. È un uomo che ha onorato le istituzioni, ma come leader è la risultante di politiche altrui, e dunque non può avere l’estro, la fantasia e la libertà di chi decide in proprio. Così i telefoni tacciono, i giorni passano, le occasioni sfioriscono nell’eterna maledizione della sinistra: meglio perdere, piuttosto che prevalga il mio compagno, da cui mi divide tutto, e soprattutto il rischio della vittoria.
Le scissioni hanno anche questa lunga coda buia di odio, che acceca come la luce. Ma così, rischia di esserci una scissione finale, quella dal cosiddetto popolo di sinistra. Che a differenza del ceto politico sa che si può marciare divisi e colpire uniti: almeno qualche volta. Perché ha ben chiaro chi è il nemico.
La Repubblica.
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