La partita (globale) del Nord.

 

I referendum
V ale la pena dirlo: ci siamo comportati bene. Per una volta in vista del doppio referendum sull’autonomia di Lombardia e Veneto non abbiamo messo in onda il solito format di una lotta politica rissosa e inconcludente. Il paragone con le drammatiche vicende della Catalogna, pur con tutte le (grandi) differenze di contesto e di storia, non può non venire in mente e ne usciamo con un buon voto. La campagna referendaria si è svolta in maniera ordinata, la forza politica che più ha investito in questa consultazione – la Lega Nord – non ha caricato i toni come altre volte in passato e persino il suo leader Matteo Salvini, propenso spesso ad alzare i decibel del protagonismo politico, questa volta ha scelto accenti più misurati. Il maggior partito d’opposizione in entrambi i consigli regionali – il Pd – ha replicato all’iniziativa dei governatori Maroni e Zaia in maniera composta e persino la divergenza di comportamento elettorale registratasi al suo interno, tra il sì «tattico» di Giorgio Gori e la dichiarata astensione del vicesegretario nazionale e ministro Maurizio Martina, alla fine ha contribuito a svelenire il clima. Nella partecipazione alle urne si misurerà il consenso attorno ad opinioni diverse tra loro, non ci sono nemici da annientare. E non ci sono nemmeno scenari apocalittici – nell’uno e nell’altro caso – da scongiurare. Incamerato questo sussulto di civiltà politica restano sul tappeto i problemi di merito.
E sicuramente il risultato di domenica ci fornirà un’indicazione preziosa sugli orientamenti degli elettori di due decisive regioni del Nord. In democrazia questo dato conta molto, a prescindere da come siano stati formulati i differenti quesiti e dalla presenza di un quorum in una Regione e non nell’altra. Tutto sommato poco importa. Il compito più gravoso sarà casomai quello di tradurre il segno lasciato dagli elettori in una proposta capace di misurarsi con le ambizioni e i problemi dei territori del Nord. Gianfelice Rocca su questo giornale ha formulato in proposito idee e suggerimenti che vanno tenuti in gran conto perché nell’economia del post crisi, una terra incognita che giudichiamo prevalentemente con il metro dei decimali del Pil, una tendenza però si intravede con chiarezza: «Saranno i territori e le città a vocazione internazionale a trainare sviluppo e a attrarre capitali e competenze». Tradotto vuol dire che occorre riporre attenzione agli input della politica romana ma a decidere delle fortune di Veneto e Lombardia alla fine sarà il loro grado di apertura e di presenza nelle reti internazionali. Parliamo al futuro perché persino dall’osservatorio privilegiato della ripresa italiana, Milano, vediamo quanto ancora ci resta da fare, quante siano le potenzialità ancora inespresse e anche quanto sia ristretta la «finestra di tempo» per giocare con successo le nostre chance. Nell’economia dei flussi i treni non si possono assolutamente perdere. Se, come pensiamo, la nuova questione settentrionale si gioca non più esclusivamente nel conflitto con Roma ma nella dura competizione globale, il referendum ci consegna però la domanda su quale sia l’assetto amministrativo più congeniale per supportare il nuovo posizionamento. Quesito tutt’altro che semplice da soddisfare perché è legittimo chiedersi se l’attuale articolazione dei poteri sia lo strumento più adatto per governare i flussi e le interazioni della Grande Regione A4, il continuum che attorno all’autostrada corre da Torino a Trieste. Chi pensa che ci possano essere modelli di sviluppo separati per il Nord Ovest, Milano e il Nord Est concentra la sua attenzione sul contenzioso per il residuo fiscale con Roma, chi crede in un’integrazione inevitabile quanto virtuosa tra le tre aree non può come conseguenza che aprire il cantiere delle idee.

Dario Di Vico

Corriere della Sera
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