Dopo nove mesi di Covid19 qualcosa di certo si può dire. È certo, ad esempio, che Cina e Australia ne siano uscite. È certo che il virus abbia creato i primi guai a Wuhan ed è certo che, a 10 mesi dall’emergenza, per le strade della metropoli cinese nessuno porti la mascherina. Bar, teatri, ristoranti e locali notturni aperti. Come in Australia, a Melbourne, dove il lockdown è iniziato a marzo e si è concluso a fine ottobre, quando il bollettino ufficiale recitava “zero casi”. In che modo ci si è arrivati? Dall’alto e dal basso. Dall’alto, con un contenimento feroce, che non prevedeva di dare troppe spiegazioni al singolo cittadino: i cinesi fisicamente sigillati a casa, gli australiani multabili di 5.000 dollari se solo provavano a stendere un asciugamano in spiaggia. Dal basso, con l’assenza di domande orpelliche e l’adesione totale alle decisioni delle rispettive classi dirigenti.

E poi tanti, tanti, soldi; tutti quelli necessari: i cinesi silenziando per settimane e settimane, senza troppi complimenti, tutte le attività della ricca regione dell’Hubei (lì non hanno il problema di discutere con la Confindustria locale), gli australiani indennizzando tutti quelli che dovevano star chiusi, abbassando gli affitti dei locali al 50% (canone peraltro da pagare a rate a fine pandemia), sospendendo i mutui, addirittura risarcendo chi doveva stare a casa per fare il tampone. Così, usando bene i fondi pubblici, con le mani libere su moneta e tassi d’interesse, somministrando i tamponi a manetta, dispensando mascherine, distanziamento, pragmatismo, severità e compartecipazione, più di un miliardo di persone si è ripreso la propria libertà. Senza dimenticare, a fine anno, anche un Pil con segno “+”.

E nel resto del mondo? È andata decisamente in maniera differente. Là dove ci si vanta di essere democrazie, di poter discutere perfino le opinioni del “compagno segretario” Xi Jinping (e per questo guardare dall’alto in basso chi invece non le discute), la lotta alla pandemia è stata soprattutto sublimazione di punti vista, irreale amplesso di parole. Dall’invito ad “abbracciare un cinese” al “virus clinicamente morto”, dal “covid19 esperimento di laboratorio” al “muore con l’estate”, dal “non è diverso da un’influenza” al “vaccino di Bill Gates”, al popolino non è stato fatto mancare nulla. Un campionario di scemenze degno di un’enciclopedia a fascicoli si è giornalmente ingrossato mentre l’Italia consumava due mesi di lockdown, 260.000 ricoveri, 100 miliardi di euro per sostenere l’economia, 10 punti di Pil e interi settori alla canna del gas. Non citiamo i morti perché poi occorre litigare coi filosofi. Di fronte al conto delle pompe funebri, c’è sempre chi è pronto a sottilizzare ferocemente sulle preposizioni “con” coronavirus” e “per” coronavirus.

È curioso immaginare l’infimo covid19 masturbarsi di gusto con la nostra metafisica della libertà. Ancora oggi, mentre noi discutiamo su che senso abbia chiudere alle 18, indossare la mascherina in pubblico, rinunciare al parrucchiere, lui si prende i suoi spazi e rimane, compiaciuto, a farci compagnia. È solo grazie a lui, al suo accomodarsi, che il governo ha gioco facile a convincerci che la colpa è tutta nostra, che se lui sta in giro è perché la condensa degli occhiali ci ha costretto ad abbassare la mascherina sotto il naso, è perché a tavola eravamo in sette invece che sei, è perché abbiamo preso l’ascensore insieme al vicino di casa. Non solo. Il covid ha anche imparato che alle scuole superiori guardavamo con senso del mistero il professore di matematica. Sa che siamo talmente somari da pretendere, con poco più di 150.000 posti letto totali, di prenderci carico dei circa 400.000 pazienti-omaggio che lui, il virus, se fosse libero di sfarfallare come un’influenza qualsiasi, recapiterebbe gentilmente ai nostri ospedali.

Insomma, il covid19 – divelto con soldi e disciplina in Cina e Australia – ama la nostra infodemia, adora il nostro senso infinito del dibattito, apprezza il nostro attaccamento alla pisciata del cane, alle dritte del “cuggino” che lavora in ospedale, alle opinioni del grande virologo che cura il Parkinson con la papaya. E a ricambiarlo, ad amare lui, c’è un’intera classe dirigente – la nostra, italiana ed europea – che ha gioco facile a tirare la corda, a lasciare che il popolo si divida tra allarmisti e negazionisti, che si scontri sotto le bandiere delle castronerie trumpoidi o del contagio da covid figlio delle scuole e della movida. Perché la classe dirigente sa perfettamente che in assenza di autorità e autorevolezza, l’unica via per imporre misure veramente risolutive è quella di far passare i suoi provvedimenti per extrema ratio (con i pronto soccorso pieni). Sa che se dovesse spendere un euro in più di quanto preventivato dovrebbe mettersi d’accordo con altri 26 Paesi (tutti peraltro falliti come noi nella lotta alla pandemia). Sa che non ha moneta da stampare. Sa che rispetto alla responsabilità piena e rischiosa dei piani preventivi, è meglio giocare la carta dello scontro tra garantiti e non garantiti, dei ristori che arriveranno, delle chiusure a suon di sirene delle ambulanze.

Dunque – stretta da vent’anni nella morsa dei comandamenti dell’ordoliberismo e del pilota automatico – la nostra classe dirigente non ha nessun senso di colpa nel guardare all’esperienza di chi già oggi il covid se l’è già messo alle spalle. “Votate!” Diceva Carmelo Bene dal palco del Maurizio Costanzo Show. Tanto, al massimo, ci si può dividere tra quelli che si dicono sorpresi perché la seconda ondata è arrivata davvero, e quelli che, ad agosto, la temevano ballando sui tavoli dei locali di Briatore (anni fa, per molto meno, durante la visita di leva ti spedivano dallo psicologo a rispondere alle domande sui fiori). Finirà quindi come sempre. Tutti, immancabilmente, a pregare affinché a salvarci arrivi l’ennesima soluzione “tecnica”, ovvero quel vaccino che ugualmente e teneramente le nostre classi dirigenti non sapranno imporre. In omaggio alla libertà: la parola che noi abbiamo bulimicamente in bocca e che gente lontana, nella rinuncia, ha riguadagnato.