Da un Brasile in crisi, schiavizzato, «campo di battaglia nella guerra fredda tra Stati Uniti e Cina», da un continente sfruttato «per soddisfare le superpotenze», umiliato, calpestato, arriva un messaggio di speranza. Di rinnovamento. Che tocca i temi dell’ambiente «verso un nuovo Ecocene» e dell’eguaglianza sociale. Che parla del ruolo della donna, del volto nuovo della Chiesa — quella di Papa Francesco. Un messaggio libero, «come lo Spirito Santo». Leonardo Boff, esponente di rilievo della teologia della Liberazione, scomodo quando era sacerdote e anche dopo (ha lasciato la tonaca nel 1992; nel 1985 era stato ammonito dalla Congregazione per la dottrina della fede), attivista per i diritti umani, docente universitario, è fiducioso: «Da ogni grande crisi viene la possibilità di un cambiamento, possono nascere forze nuove. E il Brasile è più grande di questa crisi».
Professor Boff, allora è ottimista o no?
«In realtà sono preoccupato, la situazione in Brasile è tragica: l’ultraliberismo di Jair Bolsonaro, l’estrema destra politica che fa l’apologia della violenza e dei regimi dittatoriali, che esalta i torturatori come eroi nazionali… Non abbiamo mai vissuto nulla di simile».
Spiegazione?
«Dietro c’è il progetto di ricolonizzare l’America Latina e obbligarla a essere solo esportatrice di commodities (carne, cibo, minerali…). E in questa perversa strategia il Brasile è centrale».
Perché?
«Perché è un Paese ricchissimo, una riserva di beni naturali che mancano nel mondo. Come ha detto più volte il premio Nobel Joseph Stiglitz, nei prossimi anni tutta l’economia dipenderà dall’ecologia. E il Brasile giocherà un ruolo primario in questa partita».
È difficile vivere in Brasile oggi?
«Molto. Il ministro dell’Economia, Paulo Guedes, è uno dei “Chicago Boys”, formati all’università di Chicago, che lavorarono nel Cile di Pinochet; l’ultraliberismo di destra sta facendo una politica dei ricchi per i ricchi, sta privatizzando tutto. Guedes sta portando la politica di Pinochet in Brasile. E sa perché non protesta nessuno, perché la gente non scende in piazza come sta succedendo adesso in Cile?».
No.
«Perché il governo ha fatto sapere che reprimerà ogni protesta con l’esercito! Qui hanno tutti paura, anche se il dissenso cresce. Ma dentro le mura di casa. Assistiamo a una triste forma di inerzia popolare».
In America Latina presidenti come Evo Morales e Lula hanno chiuso la loro stagione. Ora nuove forze orientano l’opinione pubblica. È finita la spinta riformista?
«Abbiamo avuto governi che hanno fatto molto per i poveri. In Brasile sono stati inclusi nel welfare 36 milioni di persone. Ma l’anno scorso un milione di famiglie è passato dalla povertà alla miseria, il governo sta smontando le politiche sociali di Lula. Abbiamo a che fare con un’élite reazionaria e schiavista che non ha mai accettato che un operaio, nel caso del Brasile Lula, o un indigeno, nel caso della Bolivia Evo Morales, arrivassero alla presidenza del Paese. Quell’élite ha fatto di tutto, con i mezzi più brutali. Ma a questa ondata violenta si sta opponendo un movimento di gruppi progressisti, di afro-latinoamericani, di indigeni. Sono i germogli di una realtà che vedremo, questa è la speranza che nutriamo».
Nuovi leader politici ne vede?
«Purtroppo no, siamo in un momento di vuoto, mancano figure carismatiche, soprattutto in Brasile. Forse anche per colpa di Lula che non ha saputo crescere una classe dirigente».
Il suo nuovo libro, «Soffia dove vuole» (in uscita per Emi), parla dello Spirito Santo. Perché?
«I tempi inquietanti che stiamo vivendo reclamano una seria riflessione sullo Spiritus Creator».
Che è rimasto ai margini della teologia.
«Questo non è vero, ci sono studi grandissimi sullo Spirito, da quello di Yves Congar fino a quello di Jürgen Moltmann, in dialogo con il nuovo paradigma cosmologico. Quello che però possiamo dire è questo: lo Spirito Santo è stato quasi sempre al margine della gerarchia ecclesiastica. E a ragione».
Cosa intende?
«La gerarchia è orientata verso “aree” come il potere, l’ordine, i dogmi, il diritto canonico, in una costante condizione di autoreferenza. Sono tutti aspetti che servono per mantenere lo status quo e che hanno una loro ragione di esistere, non lo nego. Allo stesso modo, però, non possono essere predominanti. Lo Spirito è più carisma che potere, più movimento che stabilità, più innovazione che permanenza. Segue una logica diversa rispetto a quella della gerarchia della Chiesa. Per questo quasi tutti i predicatori dello Spirito Santo sono stati emarginati o perseguitati. I fatti lo confermano. Il mio libro, giudicato nel 1985 dalla Congregazione per la dottrina della fede (prefetto Joseph Ratzinger), si intitolava Chiesa: carisma e potere. A Roma lo lessero però come “Chiesa: carisma o potere”. Per questa confusione mi hanno condannato».
Lei invece che cosa voleva dire?
«Io volevo creare un equilibrio fra carisma e potere. Però questo equilibrio deve partire dal carisma. Se parte dal potere c’è il rischio che questo soffochi il carisma. Se partiamo dal carisma, invece, si impedisce che il potere si eserciti in forma autoritaria, gli si impongono limiti e lo si obbliga a mettersi a servizio della comunità».
Qual è il ruolo dello Spirito Santo oggi?
«Siamo in un momento storico, l’Antropocene, in cui le basi che sostengono la vita e la Terra sono state profondamente attaccate. O cambiamo o moriamo. Lo Spirito è Spiritus Creator, Spiritus Vivificans. Solo lo Spirito può ripristinare l’equilibrio distrutto dalla voracità dell’uomo. Solo con lo Spirito è possibile superare l’Antropocene e arrivare all’Ecocene, a una società sostenibile, vitale, aperta alla convivenza di tutti con tutti».
Perché nella sua elaborazione teologica lei insiste nel sottolineare il ruolo della scienza?
«Non si può fare una teologia aggiornata senza un dialogo profondo con la nuova visione del mondo proveniente dalle scienze della vita, della Terra, del cosmo. Questa lettura ha già un secolo ma non è egemonica. Sono pochi i teologi che hanno accettato questa sfida».
Perché?
«Perché costringe a studiare scienze diverse: la fisica quantistica, la nuova biologia, l’astrofisica, la teoria del caos e della complessità. Dopo un simile cammino, lo dico per esperienza, è più facile fare teologia, perché con questi dati Dio appare immediatamente come l’energia misteriosa e amorosa che sostiene il tutto e che porta avanti l’intero processo cosmogenico. La categoria teologica dello Spirito Santo è più adeguata a questa nuova forma di teologia».
Cosa c’entra la coscienza ecologica con lo Spirito Santo?
«Scopo principale del mio libro è affermare che il dialogo con l’ecologia e con la nuova cosmologia ci obbliga a cambiare paradigma. Il paradigma della filosofia e della teologia occidentale è di radice greca, essenzialista, basato su natura, sostanza, essenza e altri termini simili che appartengono all’area della permanenza, della stabilità. Invece quando si parla di Spirito tutto è dinamismo, innovazione. Bisogna cambiare la forma di pensare Dio, la storia, la Chiesa. Dio è dinamismo di Tre Persone divine in comunicazione tra loro e con la creazione».
Teologia dell’ecologia dunque?
«Io ho tentato di fare una teologia con un nuovo orizzonte di comprensione. Lo stesso che indica Papa Francesco nell’enciclica Laudato si’: tutto è relazione; niente esiste fuori dalla relazione. Poeticamente Francesco scrive: “Il sole e la luna, il cedro e il piccolo fiore, l’aquila e il passero: le innumerevoli diversità e disuguaglianze stanno a significare che nessuna creatura basta a sé stessa, che esse esistono solo in dipendenza le une dalle altre, per completarsi vicendevolmente, al servizio le une delle altre”. La tesi dell’ecologia è proprio questa: tutto è connesso per formare la grande comunità di vita, il tutto della natura e dell’universo. E questo modo di pensare corrisponde alla natura dello Spirito Santo».
Ritiene che la Chiesa cattolica sia pronta ad accettare queste sue riflessioni?
«In ogni Paese la situazione è diversa. Ma ovunque mancano profeti. Con Wojtyla e Ratzinger abbiamo assistito al ritorno alla grande disciplina, visto una Chiesa chiusa su sé stessa, preoccupata dell’ortodossia, attenta a combattere nemici come la modernità, le nuove libertà. E soprattutto lontana dal popolo, con una teologia povera e una liturgia aliena alla sensibilità moderna».
Mentre adesso?
«Con Papa Francesco emerge un altro tipo di Chiesa, aperta come un ospedale di campagna, in cui la centralità non è tanto l’ortodossia, ma la pastorale dell’incontro, della tenerezza, della convivenza. Per Papa Francesco le dottrine valgono, ma vale soprattutto capire che Cristo è venuto per insegnarci a vivere i beni del regno come l’amore incondizionato, la misericordia, la solidarietà, la compassione nei confronti di chi soffre, degli ultimi».
Messaggio recepito?
«Non sempre. Molti cattolici tradizionali non si sono accorti che siamo dinanzi a un altro tipo di Papa, meno dottore e più pastore in mezzo al suo popolo. Un Papa che porta meno i simboli pagani degli imperatori romani e più la semplicità di un parroco di villaggio, semplice, umile, amico di tutti. Un uomo che arriva da lontano, e per questo libero. Se non fosse così perché il nome di Francesco? Sarebbe una contraddizione pensare a San Francesco d’Assisi in un palazzo pontificio. Ma abbiamo un altro Francesco di Roma che vive e mangia insieme con gli altri, non da solo».
Il montare della protesta pubblica nella Chiesa contro Papa Francesco la preoccupa?
«Non mi preoccupa perché non preoccupa lui. Come lo so: va a dormire alle 21.30, dorme fino alle 5.30 come un sasso, beve il suo mate e porta avanti, francescanamente, la sua missione, con un’irradiazione mondiale in senso religioso, etico e politico. Ci conosciamo dal 1972, ho scambiato con lui alcune lettere su temi di ecologia e sul Sinodo per l’Amazzonia dello scorso ottobre».
A proposito, cosa si aspetta dall’Esortazione apostolica postsinodale di Francesco, attesa a breve?
«Qualcosa di buono. Soprattutto sulla difesa del volto indigeno della Chiesa e sulle donne. Nelle mie lettere gli ho chiesto di fare un gesto profetico senza chiedere niente a nessuno, come fece Giovanni XXIII quando convocò il Concilio Vaticano II».
Quale gesto?
«Ordinare le donne».
Le ha risposto?
«Mi ha ringraziato per la lettera».
Lei dedica il suo libro alle donne.
«Io dico che la Prima Persona Divina a venire in questo mondo, o a irrompere nel processo dell’evoluzione, non è stata il Figlio, come dice la Chiesa. È stato lo Spirito Santo. È chiarissimo nel testo di Luca: “Lo Spirito verrà su di te… E ti coprirà con la sua ombra”. Ho fatto una ricerca di mesi nella patrologia: non vi è traccia della centralità dello Spirito. Nemmeno nei grandi teologi. Secondo una lettura prettamente maschile, prevale il Figlio. Ma il Figlio è venuto dopo l’accettazione (fiat) di Maria, quindi dopo lo Spirito. Dico di più: che lo Spirito ha assunto Maria, l’ha divinizzata. Nel progetto dell’Altissimo maschile e femminile sono ugualmente divinizzati. Sono parte di Dio».
Oggi la teologia della Liberazione è ecoteologia, teologia femminista, teologia afro. Ma i poveri restano tanti e oppressi. La teologia della Liberazione ha ancora un lungo cammino davanti?
«L’esistenza dei poveri, degli oppressi, mi fa sempre pensare a Gesù, San Francesco e a tanti altri che hanno avuto misericordia di loro».
L’hanno accusata di essere filomarxista.
«Marx non è mai stato padre o padrino della teologia della Liberazione, come insinuavano i dittatori latinoamericani. Ma oggi più che mai la teologia della Liberazione è urgente, l’esercito dei poveri è spaventosamente aumentato. Se la teologia, qualunque essa sia, non prende sul serio la situazione attuale, difficilmente si libererà dalla critica di cinismo e di irrilevanza storica. Bisogna leggere i segni del tempo. Lo Spirito ci invita a prendere una posizione».