LA NUOVA PIAZZA DI SALVINI

Francesco Merlo
Primagliitaliani: è Twitter che traccia il solco, ma è la Piazza che lo difende. Il terribile Hulk dei social, il Capitano di Facebook, il Truce di Instagram ha scalato il cielo della piazza tricolore. Come al solito, i numeri iperbolici — centomila — ridicolizzano l’aritmetica, ma sicuramente è vera l’abbondanza, la potenza, il flusso della Lega in Piazza del Popolo, che fu la piazza di Almirante, la piazza della destra italiana. Prima di Salvini era riuscito solo a Berlusconi.
E Salvini si mette pure la mano sul cuore, che era il gesto patriottico d’ordinanza del cav. quando ascoltava l’inno di Mameli, che qui è sostituito dal “Nessun dorma”, l’inno alla vittoria della pucciniana “Turandot” dove la patria è però la Cina, che per un casuale pendant riempie di sé la piazza del Popolo grazie a un grandissimo manifesto pubblicitario della Huawei, alla destra del palco leghista.
Poi, come Berlusconi alla strofa di Mameli ” siam pronti alla morte” per istinto accennava la mossa del toccarsi, così Salvini, arrivato al “vincerò, vincerò” per istinto ritrova, sia pure per un momento, la faccia feroce da terrone padano, quella di “io ruspo, tu ruspi, noi ruspiamo”. Anche Salvini insomma non resiste alla propria natura e ogni tanto cede alle smorfie da duro, alle boccacce luciferine che a settembre lo portarono sulla copertina di Time come il “nuovo viso della reazione” nel Vecchio Continente, “il volto della destra europea che spinge indietro la storia”. In effetti l’Europa è l’ossessione di questa piazza ed è il cuore della campagna elettorale. Salvini promette: «In nome vostro pretenderò rispetto». E poi: «Insieme rifonderemo l’Europa». Ci sono striscioni “No euro” e “L’Italia non è una colonia”.
E però Salvini e la sua piazza ostentano moderazione e certezze, l’hastag è buonsenso, non c’è più nulla del pittoresco leghista, persino i gadget sono sobri, come su un banchetto di Porta Portese: un poncho di carta con la scritta “Salvini Premier” distribuito gratis; il cappellino bianco “prima gli italiani”, il portachiavi di metallo, la bandiera e la maglietta, 5 euro ciascuno; il braccialetto, l’accendino e la penna, 7; l’ombrello 10; il K-Way 12; la polo 17: è un mercatino innocuo e ordinario. E non circolano giornali, c’è qualche libretto di propaganda, il vecchio Borghezio si è ridotto a distribuirsi da solo il suo volantino: «Leggi Idee, la rivista on-line sovranista ».
Questi militanti sono un salto nell’evoluzione della specie leghista, sono salviniani perché Salvini è l’uomo del momento, come fu Renzi, come fu Berlusconi. Colpiscono il numero e la varietà delle bandiere che non sono solo regionali, ma anche comunali e persino rionali. Risultano indecifrabili, roba che si vede solo nelle mani degli sbandieratori che le agitano e le fanno saltare nelle feste di paese, ma qui in piazza espongono solo il chiuso e la paura, l’astio e l’insicurezza dell’appartenenza organica e tribale, non sono bandiere generose che vorrebbero avvolgere il mondo, ma bandiere spaventate che vogliono mettere in fuga il mondo: «Viva le differenze e le tradizioni, vi prometto che le difenderò» grida Salvini. «La casa è sacra» aggiunge spiegando perché è giusto sparare a chi la viola. Eccolo il cuore antico del leghismo salvinista, quel che c’è di vivo sotto la carcassa del triccheballacche con il corno celtico e l’ampolla del dio Po di Bossi e di Maroni. Salvini ha sostituito lo scissionismo con il “sovranismo” e ora, scrivono i fedelissimi intellettuali del Talebano. com. «è il leader degli identitari». Ma ieri, per la verità, Salvini ha dimostrato di essere ancora alla ricerca della propria identità. Ha infatti infilato, in un inesistente Pantheon del sovranismo leghista, prima Martin Luther King e poi Karol Wojtyla dal quale ha preso in prestito una frase sui valori cristiani dell’Europa. Ecco la sua strampalata conclusione: « Oggi giornalisti e criticoni tratterebbero il Papa santo come un sovversivo sovranista e leghista». Salvini si è quindi appropriato del Natale e del Presepe (sporcandoli), di De Gasperi e persino dei principi fondativi dell’Europa «che sembrano scritti da noi leghisti». Insomma Salvini è contro l’Europa in nome dell’Europa perché solo l’Europa rifondata può fermare l’Europa degenerata.
Come si vede, si è infilata la coda del mondo nella grottesca sequenza delle citazioni salviniane. E di nuovo val la pena di ricordare Berlusconi che, all’inizio della sua avventura, sentendosi smarrito si inerpicò sui monumenti di Napoleone, De Gasperi, Einaudi, Cavour… Ovviamente Salvini ha, come tutti, il diritto di richiamarsi a De Gasperi o alla nobiltà del pensiero di Martin Luther King, e nessuno ha il monopolio o il brevetto del wojtylismo. Ma è la superficialità da orecchiante che spaventa, l’impaccio di sé sotto la spavalderia, il bisogno di imbellettarsi maltrattando i grandi nomi: non giganti sulle cui spalle giganteggia il nano, ma nano che nanizza i giganti.
Di vero c’è che i salviniani che riempiono la piazza del Popolo vengono da tutta l’Italia e stanno velocemente cambiando la mappa del potere gialloverde, quello dei collegi elettorali del 4 marzo. Il verde si sta mangiando il giallo: «Sento che è vero che noi saremmo il movimento più votato ma, anche se dovessimo arrivare all’ottanta per cento, io non farei cadere il governo per qualche sondaggio» promette Salvini che dalla debolezza dell’alleato tontolone trae una larga parte della propria forza: «Dureremo 5 anni».
Certo, pur nella generale moderazione, capita anche che dal grido “Matteo Matteo” ogni tanto si torni alla solita rabbia zotica e selvaggia. Quando, per esempio, Salvini nomina la Fornero, il salviniano che mi sta accanto si lascia scappare un «a morte, a morte». Io e un collega lo guardiamo e lui ride. Più tardi, quando Salvini denuncerà «i criticoni che non hanno mai lavorato», il nostro griderà: «Giornalisti venduti». Ha una piccola falegnameria nella provincia di Varese «che è la Betlemme di noi leghisti» dice. Passano due ragazzi con una bandiera del Kekistan, sulla quale c’è una misteriosa scritta in alfabeto kekistano: «Ci siamo inventati lo Stato del Kekistan per prendere in giro quelli del Pd che pensano che la Lega sia alleata con tutti i diavoli del mondo. È una “trollata”, speriamo che funzioni». Ecco, in Kekistan, dove non ci sono immigrati, i mari sono di sugo e le montagne di polenta, come nella canzone veneta: «Oh mamma, che tociate, oh mamma che scarpetta».
Fonte: La repubblica, https://www.repubblica.it/