L’iconoclastia ha radici profonde nel mondo premoderno, dall’incendio della Biblioteca di Alessandria alla damnatio memoriae latina, dagli imperatori di Bisanzio fino alla Riforma protestante. Così solide e di lunga durata che la furia iconoclasta sta infatti riemergendo, in questi giorni, come un poderoso fiume carsico. E non è un caso se si ripresenta proprio nel nostro mondo postmoderno, che della premodernità si rivela erede sotto più di un aspetto, in un’atmosfera resa ancora più ansiogena e distopica a causa del virus e delle ulteriori diseguaglianze che ha partorito.
La neoiconoclastia si sta abbattendo sulle statue di tutti coloro che Black Lives Matter e il movimento antirazzista esploso dopo l’assassinio di George Floyd considerano come gli oppressori del popolo nero. E, fino ad ora, non si era visto un movimento così esteso e dai tratti ormai globali.
La scrittura della storia e la costruzione della memoria corrispondono sempre a un’attività di revisione, e sono quasi sempre atti politici, che non di rado avvengono a opera di alcuni vincitori ai danni degli sconfitti. A colpire in quanto sta avvenendo al di là dell’Atlantico (con qualche rischio che la fiammata dilaghi anche nelle aree più multietniche del Vecchio continente) sono la carica irrefrenabile e le dimensioni crescenti, comparabili per certi versi a quelle di una guerra civile. E, peraltro, nell’epicentro degli scontri si trovano precisamente alcune «statue della vergogna» che ricordano i leader della Confederazione schiavista che si oppose all’Unione nordista durante la guerra (civile) di secessione. Così quello che va in scena adesso negli Stati Uniti può venire interpretato anche alla stregua dell’ultimo episodio delle cultural wars che si combattono ormai da tempo, e che hanno generato due Americhe inconciliabili sul piano dei valori di fondo. E, si sa, quando l’onda si gonfia tutto travolge, e niente risparmia.
La slavina sta trascinando nella polvere i monumenti a mercanti di schiavi come Edward Colston, politici antiabolizionisti come Henry Dundas, generali sudisti come Robert E. Lee, re colonialisti come Leopoldo II. E sta vandalizzando quelli di esploratori come Cristoforo Colombo, statisti come Winston Churchill, eroi dell’indipendenza nazionale come il Mahatma Gandhi, giornalisti come Indro Montanelli. Tutti uguali, e tutti colpevoli allo stesso modo? Per lo sfrenato relativismo (e revisionismo) postmodern che anima alcuni teorici delle nuove insorgenze – paradosso postmoderno all’ennesima potenza… – sì, senza alcun dubbio. E, difatti, stanno facendo la loro comparsa persino degli scritti più radicali del radical (e, dunque, più realisti del re) secondo cui pure Karl Marx era (almeno un po’) razzista.
E tutti equivalenti lo sono sicuramente per chi, oggetto di discriminazioni, si trova ora sospinto da una rabbia assoluta. Quell’assoluto quale assoluta identità con sé stesso da cui Hegel, nella sua polemica con Schelling, metteva in guardia come dalla «notte in cui tutte le vacche sono nere». Dove risulta impossibile distinguere, mentre proprio il differenziare costituisce il fondamento delle democrazie liberal-costituzionali e delle società aperte e plurali. Vale a dire, le sole in cui i diversi possono convivere, e che prevedono il riconoscimento dell’alterità – ovvero, per l’appunto, l’atto della distinzione. Della xenofobia di Churchill e Gandhi si è scritto, e non può essere in alcun modo taciuta, anzi va conosciuta per essere stigmatizzata. Ma non annulla il contributo straordinario che con le loro azioni, in ambiti differenti, hanno apportato alle collettività di cui sono stati le guide. Né si cancella con una mano di vernice l’importanza storica della figura di Colombo. Anche perché gli uomini sono complessi, figli dei loro tempi, e qualunque reductio ad unum impoverisce tutti senza risarcire chi ha subito dei torti. E, spesso, non fa altro che sostituire un nuovo pensiero unico a quello dismesso.
Come mostrano queste proteste contro i simboli della trasmissione di una memoria non condivisa c’è davvero bisogno di comprendere il punto di vista degli «altri». E, sicuramente, esiste l’esigenza di impedire che alcuni di quei segni visivi del passato offrano il destro per la propaganda nel presente delle abiezioni del suprematismo e del razzismo.Occorre contestualizzare e discutere le memorie, riconoscendo gli errori e le colpe, per cercare di dare vita a un immaginario partecipato da quante più persone, gruppi ed etnie possibile. E non abbattere indiscriminatamente delle statue. Perché, ancorché resa più dolorosa dall’era Covid, questa non è (e non deve essere) la notte in cui tutte le vacche sono nere.