“La nostalgia è diventata il motore inesauribile che alimenta l’industria culturale”, sentenzia Guillaume Fraissard in un recente articolo su Le Monde, lamentando il trend, esacerbato dalla pandemia, di riciclaggio di artisti e gruppi musicali, senza spiragli di novità all’orizzonte discografico e potremmo dire, più in generale, artistico. Vecchie glorie della scena musicale, che oggi, fiacche e incanutite, dovrebbero avviarsi, accompagnati dal badante di turno, sul proprio sunset boulevard, vengono riesumati, come mummie, rimessi a nuovo, inceronati e riposizionati sulla griglia di partenza, pronti per una competizione della terza età.

Gli ABBA, il quartetto di cantori svedesi in letargo da quasi quarant’anni, è pronto ad intraprendere un nuovo tour virtuale; gli immortali Fab Four, ufficialmente scissi nel 1970, tornano alla ribalta su Disney+ con Get Back, il nuovo documentario di Peter Jackson; la casa editrice Il Saggiatore ha appena pubblicato What is Life, che riunisce le interviste di George Harrison, a cura di Ashley Kahn; Sir Elton John continua il suo infinito tour d’addio – Farewell Yellow Brick Road Tour, iniziato nell’autunno del 2018 e programmato per durare fino al 2023 – e alla veneranda età di settantaquattro anni lancia un remix del suo vecchio successo Sacrifice (1989), ri-registrato con la diva electropop Dua Lipa. Non se la passa meglio la settima arte, nelle sale ritornano sempre gli stessi titoli, come 007Batman, che si alternano, compaiono e scompaiono. And on and on, gli esempi possono essere molteplici. O si ripropone merce avariata o si imita grottescamente il già visto – che presenta sempre tratti rassicuranti – di nuove idee neanche a parlarne.

Il giornalista francese si interroga quindi sul fenomeno, è forse possibile imputarlo agli svariati rinvii causati dall’epidemia di Covid? In parte, magari, è così. Ma quella di disseppellire celebrità avariate, riproporre hit scadute, ripescare dal cesto delle occasioni, ma soprattutto contraffare idee altrui, è una tendenza che esiste da sempre, è la moda del ritorno, una materia di cui gli italiani sono cultori, un esercizio di stile praticato con una certa perizia e continuità. Possiamo quindi provare a dare una lettura differente del fenomeno stesso.

Il presupposto è semplice, benché velato di mestizia: l’estetica culturale è stata canonizzata, ingabbiata in schemi predefiniti, la formazione del gusto culturale della società è stata appaltata a terzi, alle “menti eccelse dell’estetica established” – per dirla alla Labranca – le quali, con piglio tipicamente manicheo, provvedono ad imporre all’arte, nelle sue svariate forme, il proprio “pregiudizio estetico”, praticano il proprio “territorial pissing” intellettuale.

La società moderna, il popolo bue, il paese reale – lo si definisca come meglio si creda – ha pertanto assunto un atteggiamento altamente misoneista, ogni novità sembra fargli un dispetto, ama la rassicurazione, la carezza sul capo, la ninnananna prima di dormire, sfogliare lo stesso menù per poi scegliere sempre la medesima pietanza. È uno schema duro a morire, difficile da scardinare, ed è forse uno dei motivi che spingono l’artista, oggi, a proporre poche e scarne novità, comodamente installate su vecchi, funzionanti, rodati schemi.

Anche il risultato è semplice e per comprenderlo dobbiamo accantonare per un attimo l’attuale accezione di trash, per rifarci unicamente al lemma di matrice labranchiana, indossare lenti diverse per osservare la spinosa realtà in maniera feroce, spietata, invece di limitarci a criticarla in modo sterile. Se per l’intellettuale milanese il trash è infatti “l’emulazione fallita di un modello alto”, una caratteristica immanente nell’individuo o nell’oggetto, trovare una risposta al busillis segnalato dal giornalista di Le Monde risulta di più facile realizzazione. Ecco alcuni, immediati, esempi.

I Måneskin, oggi, sono l’emblema del trash. Il loro demiurgo, Manuel Agnelli, li ha definiti – travisando ogni realtà – i Beatles italiani. Pura fantasia. Conciati come fenomeni da baraccone, incartocciati nelle paillettes, truccati come dei Kiss di borgata, rigorosamente privi di genere definito, come modernità reclama, il giovane quartetto fa impazzire orde di ragazzini adoranti d’ambo i sessi per presunta, fluida sexyness, distraendo col piumaggio iridescente il pubblico bovino, che in tal modo non si concentra sul nihil musicale e, pensando di godere d’uno spettacolo originale, si accontenta invece d’un sottoprodotto da hard discount. Ed è così che il nuovo si sovrappone al vecchio schema, come copia carbone, con il loro disinibito frontman, un innesto fra una ballerina del Moulin Rouge, Iggy pop e il Duca Bianco, che si esibisce accessoriato di cuissardes in vernice nera dal tacco vertiginoso, giarrettiera in pelle, qualche borchia disseminata qua e là, smalto nero, calze a rete, una trasparenza sul gluteo e un capezzolo al vento. E la stampa in visibilio per questa clownesca caricatura di trasgressioni stantie, ammuffite, schiere di donne in adorazione per questo affronto alla virilità. Era molto più trasgressivo il duetto Dalla-De Gregori quando cantava “Ma come fanno i marinai a baciarsi fra di loro e a rimanere veri uomini però?”.

Anche i Fab Four emulavano inizialmente altri artisti – il rock and roll di Elvis, Chuck Berry, le melodie Motown – ma hanno poi brandizzato sé stessi, rendendo iconico il loro stile, oltre che le loro canzoni, eternandole, influenzando generazioni musicali a venire, dagli Oasis – pionieri del brit-pop anni novanta-duemila – ai Queen, fino a gruppi dalle sonorità più virtuose come gli Emerson, Lake and Palmer e così via. I Måneskin, triste caricatura di band del passato, emulazione fallita, massimalista ed incongrua di vetusti modelli, possono essere definiti i primus inter pares del trash contemporaneo. Ma come? Hanno vinto Sanremo, l’Eurovision, gli MTV EMA, il premio di Canicattì. Ed è proprio così, quando la modernità ti premia significa che l’hai adulata, accarezzata, coccolata e lei ti ha tributato il suo riconoscimento, ti ha riempito di zuccherini. Nulla di più deprimente.

A questo punto può trovare consolazione James Bond, a cui non è andata tanto meglio. L’industria cinematografica continua a riproporre il solito canovaccio di Ian Fleming ma stravolgendolo e piegandolo ai dettami attuali, politicamente corretti, snaturandone i personaggi. Il nuovo 007 è trash, in quanto emulazione fallita del suo stesso modello precedente. Ursula Andress che, giunonica, emerge botticelliana dalle acque, vestita dell’iconico bikini bianco in Licenza di uccidere è l’originale, mentre la nuova Bond girl in quota black di No time to die è un triste derivato, priva di quella femminilità conturbante, sinuosa, che ha sempre ispirato i personaggi femminili di 007. Ma se cambiano i canoni, perché semplicemente non proporre nuovi film?

Si potrebbe continuare all’infinito, ma quel che è chiaro è che l’artista di oggi – cantante, regista, romanziere o chicchessia – è solo un replicante, un emulatore, cosa che lo differenzia dall’essere un mero copiatore seriale, in quanto equipaggiato della ridicola velleità di superare l’originale. Utopia puntualmente disattesa, of course.

Non si tratta quindi di celeste nostalgia, è solo l’effetto nefasto della cultura di massa, quel métissage fra vecchio e nuovo che risulta costantemente desincronizzato con l’attualità. L’errore dell’emulatore trash è quello di pescare dal vecchio pensando di attualizzarlo ma il mesto risultato è solo quello di un trashista in affanno. L’artista attuale è convinto che la modernità funga da colabrodo, che scoli via il vecchio, lasciando in superficie il nuovo, ma non è così che funziona e i goffi risultati sono ben visibili.

Del resto, basta pensare alla differenza con gli anni Sessanta, in cui la maggior parte delle hit discografiche erano dichiaratamente cover di canzoni straniere. Quando Patti Pravo esordisce nel 1966, lo fa con una cover di But you’re mine di Sonny&Cher ma il suo Ragazzo triste balza immediatamente in testa alle classifiche; nel medesimo anno, i modenesi Equipe 84 lanciano con successo Ho in mente te, cover della canadese You were on my mind, mentre I corvi incidono il loro primo 45 giri, con Un ragazzo di strada, cover di un classico pezzo del garage rock, I ain’t no miracle worker dei The Brogues; ma anche Gianni Morandi, il viso più limpido della scena nostrana, con la sua hit Scende la pioggia, nel 1968, non fa altro che italianizzare Elenore dei The Turtles.

La differenza, quindi, fra oggi e sessant’anni fa, dov’è? Risiede nel fatto che mentre le cover musicali dell’epoca erano semplice trasposizione della cultura di massa dall’estero all’Italia – il che rappresentava comunque per il pubblico nostrano una novità – oggi l’artista è appiattito su modelli passati, rilancia pavidamente il vecchio in salsa nuova, lo camuffa, lo maschera, regala a vecchie stelle gli ultimi fuochi, trashizza opere e personaggi.

Cosa ci resta da fare per arginare questa tendenza? Nulla, se non nuotare controcorrente – come i “giovani salmoni” di Andy Warhol era un coatto di Tommaso Labranca – rispetto all’impetuoso torrente del pregiudizio intellettuale, uscire dagli schemi rassicuranti dell’estetica dottrinaria, abbattere quel fenomeno trash che colonizza l’arte, senza prendersi troppo sul serio, neutralizzandone così gli effetti.