A seguire riporto il testo di un discorso agli Allievi dell’Accademia di Modena dell’Esercito Italiano tenuto da Eugenio Cefis il 23 Febbraio 1972.
Questo testo è una pietra miliare per l’interpretazione della recente storia italiana, spesso viene citato ma non viene studiato abbastanza.
In rete se ne trova una forma ben commentata, a suo tempo, da Giorgio Radice, ma ora a bocce ferme le valutazioni vanno effettuate con un altro metro alla luce di quanto e sopratutto come è avvenuto dopo quel discorso.
Ognuno lo valuti come meglio creda, usando il famoso senno del poi.
in ogni caso questo discorso deve essere inserito nel quadro della storia di Cefis, grande architetto della storia economica italiana, e non per ultimo nella vicenda Pasolini vs Cefis; infatti PPP considerava questo discorso di Cefis come una prova del malanimo dell’imprenditore.
Pasolini si era convinto che Eugenio Cefis fosse un uomo senza scupoli, e pertanto aveva indagato nel mondo dellle società petrolchimiche facendo convergere i suoi studi in un libro “Petrolio” che pensava di pubblicare.
PPP avrebbe voluto inserire questo discorso nel bel mezzo del libro, ma la sua vicenda umana non glielo permise.
A Voi buona lettura
Signori,
perché un allievo di questa Accademia torna dopo più di trent’anni tra queste mura a parlarVi di un tema così estraneo all’arte militare come le imprese multinazionali?
Perché un ex ufficiale che le vicende della guerra e del dopoguerra hanno portato su strade molto lontane dalla vita militare sente il bisogno di aprire un dialogo con il soldati di domani?
È molto semplice
Io sono convinto che Voi sarete chiamati nei prossimi anni a svolgere un ruolo importantissimo e vorrei esserVi utile a prendere la mia esperienza come elemento di meditazione.
Io ho lasciato Modena quando si pensava ancora che la guerra potesse essere vinta dalle baionette; alle spalle avevamo ancora un’agricoltura di sussistenza, l’ agricoltura della falce e un’ industria chiusa negli schemi stretti dell’autarchia voluta dal fascismo.
La guerra ci ha buttato allo sbaraglio contro chi ormai aveva capito che le battaglie si vincevano con i carri armati, contro chi aveva alle spalle una agricoltura del trattore ed un’economia aperta alle grandi dimensioni internazionali.
Trent’anni fa l’Ufficiale aveva ancora una funzione di tipo ottocentesco, era soprattutto strumento della macchina da guerra, impegnata a sacrificarsi fino in fondo per la difesa del territorio della Patria.
Poi qualche cosa è cambiato nel mondo; è cambiato dal 1945, da quando le esplosioni atomiche hanno dimostrato che la guerra poteva uccidere non soltanto gli esseri umani ma l’intera umanità.
Ma nello stesso tempo i cultori dell’arte militare hanno scoperto che da molteplici esperienze (e ne citiamo solamente tre: resistenza europea, Algeria e Vietnam), che anche gli ordigni bellici più spaventosi non potevano prevalere senza appoggio della popolazione: in un certo senso ci siamo trovati di fronte alla rivincita della baionetta, quando dietro a quella esiste una forza morale, esiste senso della storia.
Io penso che ho oggi all’Ufficiale si ponga una duplice responsabilità.
Da un lato, Egli dovrà essere cittadino del mondo perché ha un compito di dimensione mondiale per la difesa della Pace; dall’altro deve comprendere sempre meglio i meccanismi politici e soprattutto economici che più della presenza militare influenzano il nostro futuro.
Gli stessi elementi che indica la forza di un Paese sono cambiati: non contano più tanto e solo le disponibilità di risorse e di materie prime, quanto le capacità organizzative e la velocità di aggiornamento al processo tecnologico.
E più che mai è importante il senso del dovere; ma intendo quel senso di dovere che può nascere soltanto in un Paese libero, con quella libertà che in Italia è garantita dalla Costituzione repubblicana che Voi siete impegnati a difendere.
In un’epoca in cui si pensa che la terra sia una nave spaziale che fa parte del convoglio assieme agli altri pianeti e che in un futuro non tanto lontano, per rifornirsi di materie prime ci si potrà rivolgere alle altre navi di questo convoglio, cioè gli altri pianeti, il pensare ad una guerra di conquista, ad una guerra per sottrarre risorse ad un’altra nazione è tanto assurdo quanto criminale.
Faticosamente e tra mille contraddizioni, gli uomini del nostro pianeta, ad oriente come ad occidente sono alla ricerca degli strumenti migliori per garantire il progresso, il benessere e la dignità di tutta la popolazione e quando Voi pensate al quadro mondiale in cui si inserirà la Vostra presenza, dovete ricordare sempre che anche Voi siete a servizio di questo gigantesco sforzo, ragione stessa della Pace.
Ecco quindi che io vengo a parlarVi delle imprese multinazionali; queste imprese sono uno dei maggiori protagonisti della storia recente del mondo occidentale e possiamo prevedere che nel bene e nel male, il nostro futuro sarà in larga parte determinato dalle iniziative di questi grandi organismi economici.
Per questo Voi dovete conoscerle.
Il tema delle multinazionali é molto vasto, non vorrei annoiarVi quindi cercherò di limitarmi agli aspetti più generali rispondendo soprattutto ad alcune domande:
— che cosa sono le multinazionali?
— Che conseguenze provocano nell’economia mondiale?
— Come si svilupperà il rapporto tra queste società che operano su basi internazionali e gli stati sovrani che tendono sempre più a voler controllare i fatti economici che si svolgono all’interno del loro territorio?
Iniziamo il discorso dalla definizione di multinazionali.
E’ tutt’altro che facile.
Gli stessi teorici non sono d’accordo: c’è chi definisce come multinazionali tutte quelle società che hanno strutture produttive in diverse nazioni cioè che sono presenti con propri stabilimenti, e non soltanto con un’organizzazione commerciale, in molti Paesi del mondo; in questo caso già oggi le multinazionali sarebbero perlomeno qualche centinaia.
C’è chi invece dice che le multinazionalità è un punto di arrivo e che si potrà parlare di imprese multinazionali soltanto quando in futuro più o meno lontano le scelte più importanti di un gruppo industriale non saranno effettuate solo in un Paese ma ci sarà un effettivo decentramento delle decisioni e come conseguenza ci saranno uguali prospettive di carriera fino ai massimi livelli per i dirigenti tutte le nazionalità.
Se accettiamo questa definizione dobbiamo dire che di multinazionali non esiste nessuna, perché quando il gruppo dirigente dell’impresa è formato tutto o quasi da elementi della stessa nazionalità, dai quali dipendono in pratica le maggiori decisioni si verifica sempre una tendenza comprensibile a scegliere i propri stretti collaboratori e quindi anche gli eventuali successori tra persone che hanno la stessa base di cultura e di linguaggio.
Questo fenomeno del resto non limitato alla versione economica come dimostra il caso della Chiesa cattolica che, pur avendo carattere nazionale, ha sempre espresso da molti secoli pontefici della stessa nazionalità.
Se pertanto accettiamo quest’ultima definizione delle multinazionali, dovremmo dire che si tratta di un tipo di impresa che ancora non esiste e che al massimo oggi si può parlare di società binazionali come la Royal Dutch Shell che é anglo-inglese e la Dunlop Pirelli che è Italo- inglese.
Per semplicità di discorso mi si permetta comunque di rinunciare alla precisione del teorico e di parlare di multinazionali per definire tutte quelle aziende che oggi articolano sostanzialmente la loro attività in molti Paesi e interessano con le loro iniziative la economia di vaste aree geografiche sia dal punto di vista degli scambi di risorse e tecnologie sia da quello degli investimenti e dei riflessi su livelli di occupazione.
La tendenza delle imprese a guardare al di là dei confini nazionali è assai remota e può essere fatta risalire alle compagnie commerciali del ‘600 come la famosa compagnia dell’Indie che pur facendo capo ad un Paese europeo, possedevano e sfruttavano concessioni negli altri continenti con bandiera propria ed anche con facoltà di disporre di proprie forze armate.
Ma le prime società multinazionali rivolte non allo sfruttamento coloniale ma alla intensicazione degli scambi commerciali con i Paesi più progrediti, si svilupparono nel secolo scorso con iniziative della Shell e della Royal Dutch ed in seguito negli Stati Uniti quando questi ultimi cominciare ad affermarsi come potenza economica della scena mondiale.
Come conseguenza numerose società americane si insediarono in Europa e Canada con un centinaio di unità produttive.
Ne ricordiamo alcune: la Colt, la Singer, la ITT, la General Electric, Westinghouse e la Park Davies.
In tutti questi casi, si trattava di società con produzioni già relativamente sofisticate e di notevole contenuto tecnologico e giustificavano la costruzione di proprie unità produttive in altri Paesi con il fatto che le proprie esportazioni in tali aree, pur già notevoli, rischiavano di non uscire nel tempo a fronteggiare adeguatamente la minaccia dei concorrenti locali
Successivamente nei primi anni di questo secolo con l’avvento del motore a scoppio presero a svilupparsi sempre più società petrolifere, principalmente di origine americana, che avevano il problema di aumentare costantemente le proprie fonti di approvigionamento.
La filosofia delle società petrolifere portava direttamente alla multinazionale.
Infatti il petrolio greggio, se si fa eccezione per le cospicue risorse nordamericani, doveva essere ricercato in Paesi arretrati.
Le possibilità di approvvigionamento mantengono quindi un carattere aleatorio sia perché i luoghi di origine potevano essere coinvolti in guerre coloniali sia perché le rotte di trasporto potevano essere minacciata dai fatti bellici.
Tutto ciò invece induceva le compagnie a teorizzare la massima flessibilità cioè la possibilità di attingere i propri approvigionamenti da diversi Paesi e anche di indirizzare i flussi del greggio verso aree di consumo sempre più diversificate.
Lo sviluppo della società petrolifere, appunto per questi motivi è stato enorme : la Standard Oil New Jersey, cioè la Esso, opera oggi in cento Paesi, la Gulf in 50, la Royal Dutch Shell è presente in circa 300 unità produttive e commerciali in tutto il mondo.
La potenza economica di queste società le induceva spesso a svolgere un ruolo di primo piano nella vita politica locale, un ruolo che poteva essere tollerante nei deboli e arretrati Paesi produttori ma, come ci insegna la Storia del nostro Paese nell’immediato dopoguerra, poteva essere di tutto rilievo anche nei Paesi consumatori, soprattutto quando vi era alle spalle un consistente appoggio politico, come quello delle potenze vittoriose nell’ultimo conflitto mondiale.
Ed é proprio dopo l’ultimo conflitto mondiale che le imprese multinazionali si sono sviluppate e estendendosi a molti altri settori industriali soprattutto quelli tecnologicamente più avanzati, per i quali le multinazionali sono un’effettiva esigenza: lo sviluppo del transistor e il computer non poteva concepirsi che in condizioni di multinazionalità.
Quando gli storici futuri esamineranno l’arco di questi venticinque anni, è probabile che tra le caratteristiche di questo periodo, che ha trasformato così radicalmente l’economia ed anche il volto politico del nostro pianeta, essi citeranno al primo posto il gigantesco incremento del volume del commercio mondiale.
Nel 1950 il valore dell’interscambio mondiale (ad eccezione dei paesi dell’Est europeo) raggiunse i 153 miliardi di dollari.
Vent’anni più tardi, nel1970, il volume dell’interscambio ha toccato, per la stessa area, i 570 miliardi di dollari (a valore costante).
In vent’anni,quindi, il valore dell’interscambio si è quasi quadruplicato.
e’ inutile che mi dilunghi sulle ragioni di questo sviluppo. Ne citerò solo alcune:
— l’eliminazione delle restrizioni quantitative degli scambi;
— la riduzione delle protezioni tariffarie;
— la maggior liquidità dei mezzi di pagamento internazionali, cioè la maggior facilità di effettuare pagamenti da un Paese all’altro;
—- lo sviluppo sempre più accelerato del progresso tecnologico;
—- la formazione di comunità economiche su scala continentale, come la Comunità Europea;
—- una rete di trasporto sempre più estesa ed efficiente;
—- l’estensione del benessere, e quindi di un maggior potere di acquisto, ad uno strato sempre più ampio della popolazione mondiale.
In questo arco di tempo, quindi, le imprese si sono abituate a guardare alle grandi aree continentali come ad un unico mercato.
Anche nelle decisioni di investimento, le imprese hanno attribuito un’importanza secondaria ai confini nazionali, scegliendo la località che poteva apparire più proficua, indipendentemente dal fatto che questa si trovasse nell’uno o nell’altro Stato.
Qualche dato può illustrare la dimensione raggiunta oggi dal fenomeno industriale multinazionale.
Il totale della produzione di beni e servizi realizzato da consociate di multinazionali esclusa quindi la produzione di società minori è oggi di circa 120 mila miliardi di lire.
Tale cifra è superiore al prodotto nazionale lordo di ogni Paese ad eccezione di quelli degli Stati Uniti ed Unione Sovietica. Circa due terzi di questa cifra riguarda le consociate di società madri aventi sede negli Stati Uniti, il restante terzo fa capo principalmente a consociate di imprese europee principalmente inglesi olandesi e tedesche.
Le principali multinazionali americane hanno oggi oltre 3.000 unità produttive all’estero; il fatturato di tali unità è circa doppio rispetto a quello delle esportazioni degli Stati Uniti. Ancora qualche dato.
Oggi il tasso di incremento del fatturato delle consociate di società multinazionali è di circa il 10% l’anno mentre il prodotto nazionale lordo cioè l’indice più significativo per misurare lo sviluppo economico di una nazione aumenta mediamente del 5%.
Tale tasso di incremento è del 40% superiore a quello delle esportazioni.
In altre parole, il ritmo di crescita delle multinazionali è molto superiore a quello degli indicatori dello sviluppo di tutte le economie industriali.
Sulla base di tali dati, alcuni studiosi prevedono che la quota della produzione mondiale controllata dalle multinazionali è destinata ad aumentare ulteriormente.
Considerando che anche l’economia di scala di cui godono queste imprese, c’è la possibilità di realizzare economie attraverso il coordinamento delle loro attività, gli stessi studiosi prevedono che nel 2000, cioè tra meno di 30 anni, oltre due terzi della produzione industriale mondiale sarà in mano alle 200-300 maggiori società multinazionali.
A questo punto ci si può domandare quali ragioni spingono una società ad inserirsi con proprie unità produttive sui mercati stranieri e con i vantaggi ne ricava.
In un’epoca di mercato sempre più aperti potrebbe sembrare più agevole vantaggioso sviluppare le proprie attività attraverso un aumento delle esportazioni.
Eppure, come abbiamo detto, il fatturato delle filiali di multinazionali di origine americana all’estero è oggi circa doppio di quello ricavato dalle esportazioni.
In modo molto schematico possiamo indicare queste ragioni dell’espansione multinazionale:
— aspirazione a raggiungere livelli ottimali;
Superato un determinato livello che naturalmente è diverso da ogni settore produttivo all’altro, non sono più possibili economie di scala sulla produzione, cioè costruire impianti sempre più grandi; è invece possibile aumentare le economie di scala di impresa che si realizzano con un coordinamento dei finanziamenti, delle attività di ricerca e sviluppo, dei sistemi avanzati di gestione.
L’investimento diretto in Paesi stranieri consente di realizzare questa cosa mi attraverso:
—– una maggiore distribuzione delle spese di ricerca
—– miglior utilizzo delle conoscenze tecnologiche,
delle capacità manageriali, delle tecniche di gestione e di marketing sempre più sofisticate costose
—–Necessità di superare le barriere commerciali con l’insediamento di unità produttive nei mercati in cui si vuole penetrare.
Vi sono ancora moltissime aree economiche in cui le esportazioni sono pressoché impossibili a causa di tariffe doganali proibitive o di limiti quantitativi, cioè di contingenti di importazione.
Se, quindi, si vogliono sfruttare le possibilità, talvolta rilevanti, offerte da tali mercati appare necessario o almeno consigliabile procedere ad un’attività produttiva sul posto.
—- possibilità di fronteggiare meglio situazioni congiunturali avverse.
Anzichè concentrare tutte le attività produttive in un solo mercato appare talvolta più vantaggioso ripartire il proprio impegno su più mercati; si potrà così bilanciare con successo su uno di essi i mediocri risultati ottenuti in un altro.
—- necessità di fronteggiare in modo adeguato la concorrenza.
In molti casi è opportuno controbattere i produttori stranieri effettuando direttamente investimenti sul loro mercato.
Inoltre, se esistono mercati terzi che presentano condizioni favorevoli, è opportuno precedere le iniziative dei concorrenti effettuando propri investimenti.
Abbiamo visto che la decisione di un’impresa di trasformarsi in multinazionale, effettuando ingenti investimenti all’estero dipende soprattutto dalle esigenze della produzione e da quelle del mercato di sbocco.
La produzione e i mercati hanno caratteristiche diverse in ciascun settore industriale; è facile comprendere quindi che la caratteristica di multinazionalità è maggiormente presente in certi settori e meno in altri dove il ciclo produttivo può svolgersi in condizioni economicamente valide anche su aree limitate.
In generale si può dire che le multinazionali sono presenti:
—- nei settori che coinvolgono sfruttamento di risorse ingenti di materie prime provenienti da Paesi in via di sviluppo; qui però siamo di fronte a un tipo di particolare di multinazionale di derivazione coloniale.
—- nel settore tecnologicamente avanzati ;
Circa l’ 85% degli investimenti esteri delle società manifatturiere statunitensi è concentrata nel settore automobilistico, chimico, meccanico elettrico elettronico.
Vi sono però dei settori che hanno importanza di primo piano per l’economia mondiale come l’acciaio o l’industria aeronautica in cui la multinazionalità non ha potuto svilupparsi soprattutto perché il potere politico li ha ritenuti di tale importanza per ragioni di solito collegata alle esigenze della Difesa da porli sotto uno stretto controllo nazionale.
Abbiamo visto come i Paesi d’origine delle multinazionali siano stati soprattutto gli Stati Uniti e, in misura minore, la Gran Bretagna.
La penetrazione delle multinazionali di questi Paesi ha un carattere dominante anche in certe nazioni che possono essere considerate economicamente sviluppate come il Canada dove 75 delle cento maggiori società sono controllate dagli Stati Uniti o dalla Gran Bretagna o l’Australia dove la produzione industriale è per il 40% sotto controllo di società americane.
In Europa la presenza della struttura industriale più consistente ed anche la maggiore sensibilità politica dei Governi ha frenato il processo di sviluppo delle multinazionali senza però impedire che esso raggiungesse dimensioni imponenti.
Infatti nel 1969 gli investimenti americani in consociate europee, nella sola industria manifatturiera hanno superato i 700 miliardi di lire.
E’ bene sottolineare che certi discorsi sull’invasione industriale americana in Europa devono essere rivisti alla luce dei più recenti avvenimenti.
E’ vero che soprattutto attraverso le multinazionali la presenza degli Stati Uniti nella economia europea è assai consistente, ma è anche vero che si sta sviluppando pure un processo in senso inverso.
E’ sempre più frequente il caso di grandi società di origine europea che impiantano stabilimenti anche negli Stati Uniti.
Questa è la diretta conseguenza del sorgere anche l’Europa di società multinazionali che la logica stessa dello loro sviluppo non possono rinunciare ad un mercato così ricco come il mercato nordamericano; ricco ed anche interessante, perché in certi settori molto avanzati come il settore farmaceutico, una presenza industriale, anche limitata, in tutti i Paesi più progrediti ha la stessa funzione degli esploratori nell’arte militare: segnalare i movimenti degli avversari, essere al corrente sui prodotti più avanzati che, sperimentati dapprima sul mercato interno, saranno poi immessi sul mercato mondiale.
La multinazionale, quindi, è un fenomeno anche europeo.
Non possiamo nasconderci però che la situazione politica dell’Europa rende piuttosto difficile un processo di concentrazione industriale in senso multinazionale.
Fino a quando il nostro continente sarà frammentato in diversi stati, fino a quando la multinazionalità potrà essere identificata con uno o due Paesi d’origine, cioè con i Paesi delle società madri, le iniziative delle affiliate della multinazionale dovranno sempre combattere un certo clima di diffidenza e di sospetto dovuto al fatto che i loro centri decisionali più importanti sfuggono al controllo del potere pubblico locale.
Però prima di entrare nel vivo di questo discorso cioè dell’esame del complesso sistema di rapporti internazionali tra multinazionali e Stati nazionali è opportuno esaminare brevemente come avviene il processo decisionale all’interno delle società multinazionali, in sostanza chi detiene il potere di decisione in queste società che per le loro iniziative hanno dimensioni mondiali.
Nelle categoria delle imprese multinazionali possiamo collocare società dalle caratteristiche più diverse: dalle imprese fortemente centralizzate che per diversi motivi concedono poco spazio all’iniziativa delle consociate, ad imprese largamente decentrate che si basano sulla massima autonomia all’interno del Gruppo.
Di massima si può dire che l’autonomia delle consociate è maggiore:
—- quando i Paesi in cui esse operano sono caratterizzati dal tenore di vita relativamente elevato.
—– quando esse presentano buoni risultati gestionali, un’efficace realizzazione delle strategie di sviluppo proposte dalla casa madre, un valido sfruttamento delle possibilità offerte dal mercato locale.
E’ comunque in atto una tendenza verso l’adozione di strategie globali delle multinazionali integrate su scala mondiale e ciò soprattutto per ragioni finanziarie, di programmazione e di controllo.
Si tratta di un fenomeno inevitabile, collegato alla logica di comunicazioni sempre più rapide ed agevoli, alla formazione di mercato finanziario ormai su basi mondiali, al fatto stesso che molte società multinazionali delegano a loro consociate appositamente costituite certi servizi per tutto il Gruppo, come possono essere i trasporti la ricerca, l’ ingegneria.
In questo modo una società facente parte di una multinazionale operante su un determinato territorio nazionale viene a far capo non solo ad una casa madre ma a diverse società collegate che ne controllano le diverse funzioni.
Talvolta poi i più grandi gruppi multinazionali prevedono di controllo a due livelli; dapprima su scala continentale e poi in un’unica società mondiale a sua volta controlla le società continentali; ed è inevitabile che la struttura di questo genere, per quanto imposta dalle esigenze dei tempi, tolga un ulteriore margine di autonomia alle consociate nazionali.
Finora abbiamo parlato delle imprese multinazionali.
Vediamo ora l’altro protagonista dell’economia mondiale, l’ interlocutore con cui tutte le imprese multinazionali devono dialogare nelle loro iniziative; lo Stato nazionale.
Se esaminiamo il problema storicamente, vediamo subito che i rapporti tra multinazionali e potere politico si sono posti in modo diverso a seconda del grado di sviluppo del Paese in cui la multinazionale opera.
Nella prima fase dello sviluppo dei Paesi del terzo mondo, le multinazionali hanno esercitato ruolo importantissimo.
Questi Paesi, infatti, hanno assolutamente bisogno per la loro crescita del patrimonio di capitali, di tecnologie e di esperienze di cui dispongono le imprese multinazionali.
D’altra parte soltanto queste imprese possono accollarsi i rischi relativi alla stabilità politica che solitamente accompagna la fase di decollo.
In questo primo stadio, in cui la classe politica locale ancora molto debole è spesso sottoposta a tutela di fatto da parte delle potenze ex coloniali, le imprese multinazionali posso dettare le regole del gioco.
Al limite non succede talvolta che qualche Governo proceda alla nazionalizzazione di singole unità appartenente alle multinazionali.
Ma è difficile che un tale Governo riesca a reggere alla pressione politica che le multinazionali possono esercitare.
D’altra parte anche una nazionalizzazione in un Paese privo di classe dirigente e di tecnici adeguati rischia di risolversi in una pura perdita di profitto e di prestigio,
Ben presto, infatti, i protagonisti della nazionalizzazione scoprono che non basta possedere le materie prime e magari gli impianti industriali quando mancano i mezzi di trasporto e di distribuzione nelle aree di elevato consumo.
Questo è il classico meccanismo sul quale, fino a qualche anno fa, si sono rette le cosisddette sette sorelle, che non temevano di rischio della nazionalizzazione delle industrie petrolifere in quanto sapevano che i Paesi in via di sviluppo non erano in grado di commercializzare da soli petrolio greggio e i prodotti raffinati.
D’altro canto, è molto difficile che un Paese ancora povero e arretrato possa permettersi di adottare iniziative politiche che scoraggino gli investimenti esteri.
Le royalties che vengono versate al Paese ospitante, la valuta derivata dalle esportazioni, i salari con cui la manodopera locale è retribuita, sono fatti economici di tale rilevanza da porre in secondo piano i problemi dell’autonomia e del prestigio politico.
In una fase successiva, quella decollo economico, la classe politica locale si rafforza e prende in esame le soluzioni che possono servire a limitare il potere delle multinazionali.
In questa fase, la nazionalizzazione delle affiliate locali delle società multinazionali può dare risultati positivi, quando esiste nel Paese la possibilità di gestire, in proprio, con propri tecnici, le attività produttive.
Nello stesso tempo, la classe dirigente locale si pone il problema di come far giungere direttamente i propri prodotti nelle aree di elevato consumo.
Si cercano accordi ad altre condizioni, con la società internazionali, magari in concorrenza con quelle già impegnate sul proprio territorio, oppure si formano associazioni di Paesi produttori che bloccano le forme di concorrenza dannosa sui prezzi di vendita delle materie prime.
Anche qui il settore petrolifero è caratteristico.
Certi Paesi hanno preferito ricorrere direttamente alla nazionalizzazione degli impianti di estrazione e talvolta delle raffinerie.
Ma le forme più comuni di intervento dei Paesi produttori sulla politica petrolifera si attuano attraverso:
—- gli accordi con le compagnie di Stato dei Paesi consumatori
—- le iniziative dell’ OPEC, l’ organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, che permettono ai produttori presentarsi con un fronte comune rispetto alle multinazionali.
Qualunque sia la forma di difesa adottata dal potere politico, per la multinazionale il risultato è doppiamente allarmante: da un lato sono messe in forse le fonti di approvvigionamento di tutto il sistema; dall’altro si assiste ad un’erosione dei margini di profitto.
E la risposta delle multinazionali si sviluppa in due forme diverse di differenziazione delle proprie attività produttive:
—- diversificando le proprie fonti di approvvigionamento per compensare le perdite subite in un Paese per eventuali nazionalizzazioni attraverso l’aumento della produzione in altri Paesi;
—- attraverso l’intervento in altri settori tecnologicamente più avanzati, dove è assai difficile fare a meno del patrimonio di esperienza che soltanto un’organizzazione multinazionale può offrire.
Per continuare l’esempio tratto dall’ industria petrolifera, la conseguenza di questa strategia è una sempre più massiccia presenza delle imprese multinazionali provenienti dal settore petrolifero nell’industria chimica e petrolchimica, che richiede conoscenze più progredite e più difficili da acquisire che non la semplice attività di estrazione e raffinazione del petrolio. In questa fase, anche quando gli Stati adottano una politica di massimo incoraggiamento agli investimenti esteri, il Governo locale cercherà comunque di spogliare la presenza delle multinazionali da qualsiasi addentellato politico.
Così, ad esempio, in alcuni Paesi americani i Governi locali hanno chiesto alle affiliate delle multinazionali di rinunciare a far valere la possibilità di intervento diplomatico e politico del Paese d’origine impegnandosi, in cambio di questa rinuncia, a comportarsi con le affiliate delle multinazionali con gli stessi criteri giuridici ed economici che valgono nei confronti della società locali.
Esiste, infine, una terza fase che caratterizza i Paesi ormai industrializzati.
La classe politica locale ha ormai conseguito la sua indipendenza economica, e scopre che per mantenere il ritmo delle nazioni più ricche non può fare a meno delle imprese multinazionali e del loro apporto di capitali e tecnologia.
Il problema dei rapporti tra Stati industriali moderni ed imprese multinazionali è appunto quello in cui su cui è opportuno approfondire maggiormente il nostro discorso, anche perché ci riguarda più da vicino.
In questa fase lo Stato non deve soltanto seguire con attenzione le iniziative delle affiliate delle imprese multinazionali di origine estera ma deve anche considerare le conseguenze delle iniziative delle sue società multinazionali cioè di quelle che hanno all’interno del proprio territorio la casa madre.
Spesso, infatti, queste iniziative possa essere oggetto di preoccupazione da parte delle attività politiche, o perché sono suscettibili di creare aree di tensione nei rapporti con altri Paesi, o anche perché aggravano gli squilibri economici all’interno del Paese stesso.
Ad esempio, quando un Paese ha difficoltà contingenti nella bilancia dei pagamenti, cioè nei conti con l’estero, preferirebbe di gran lunga che le imprese svolgessero un’azione all’interno del Paese realizzando nuovi impianti ed esportandone i prodotti anzichè esportare i capitali il cui rendimento è sempre a più lungo termine.
Se il Paese ha ancora aree arretrate o permane una rilevante disoccupazione, il potere politico si preoccuperà che le risorse esportate siano sottratte allo sviluppo interno.
Bisogna naturalmente che questa giusta esigenza non si trasformi in un’ottica miope, perché abbiamo visto che spesso gli impianti che possono essere realizzati all’estero, magari attraverso joint ventures, cioè iniziative congiunte con imprese di altri Paesi, non sarebbero ugualmente realizzabili all’interno.
Impedire queste iniziative comporterebbe una perdita la secca nelle possibilità di esportazione di tecnologie ed anche eventualmente di forniture per gli impianti di progettazione all’estero.
Ma l’attuale dimensione degli Stati è compatibile con una politica efficace nei confronti delle imprese multinazionali?
Tutti i governi si trovano oggi a dover vivere un dilemma la cui soluzione è molto difficile.
Da un lato, ci si evolve sempre più verso l’identificazione della politica con la politica economica.
In altre parole, i fatti economici, dai livelli di occupazione alla produzione di reddito, dagli investimenti ai flussi di beni e servizi, sono sempre piu importanti nel determinare il clima sociale e quello politico in cui il Governo deve agire.
Esiste quindi la tendenza dello Stato a controllare sempre più i fatti economici.
Questa avviene :
—- attraverso l’intervento diretto, sotto forma di aziende pubbliche;
—- attraverso strumenti monetari, cioè regolando le quantità di moneta e credito a disposizione degli operatori economici;
—- attraverso strumenti fiscali e tariffari, cioè con agevolazioni e sgravi fiscali che facilitano rendono più difficile il conseguimento di determinati obiettivi, oltre che naturalmente con gli strumenti classici di azione verso l’esterno; barriere doganali, controlli finanziari e sui cambi.
L’impiego di questi strumenti è normalmente inquadrato in una politica di programmazione più o meno rigida che definisce quali devono essere gli obiettivi che lo Stato persegue in politica economica.
L’altro corno del dilemma è dato dal fatto che il territorio nazionale è sempre più insufficiente per un’economia che tende ormai muoversi in dimensioni mondiali.
Infatti
—Se i controlli statali creano vincoli eccessivi agli investimenti e alle operazioni in un Paese la società multinazionale può comunque rispondere potenziando le sue attività in altre aree geografiche e disinvestendo dal Paese in cui si sente troppo contrastata.
—-Gli strumenti fiscali sono di difficile impiego.
Una società che opera in un solo Paese può sempre essere tassata dal Governo sulla base dei suoi guadagni effettivi, ammesso che i bilanci possano essere controllati;
Ma all’affiliata di una società multinazionale è abbastanza facile dimostrare al fisco di essere sempre in perdita e, al tempo stesso, essere un buon affare per la casa madre.
Basta infatti che acquisti le materie prime da un’altra società del gruppo ad un prezzo sufficientemente elevato perché produca un reddito per il Gruppo nel suo complesso.
—- Le barriere doganali e tariffarie in generale il controllo sui movimenti di bene e di denaro rispetto all’estero sono di applicazioni sempre più difficile perché provocano una serie di ritorsioni da parte degli altri Paesi.
—- Anche l’impiego delle imprese di Stato ha i suoi limiti.
L’impresa di Stato risponde direttamente al potere politico, è strettamente vincolata da esigenze sociali interne ed ha senza dubbio grosse difficoltà a porsi su un piano concorrenziale rispetto alle imprese multinazionali, molto più libere nel loro movimenti tra un Paese e l’altro.
Insomma gli Stati nazionali come nei loro rapporti con le imprese multinazionali sembrano spesso come i giocatori della squadra di calcio costretti da un assurdo regolamento a giocare soltanto nella propria area di rigore lasciando ai loro avversari la libertà di muoversi a piacimento in tutto il campo.
Del resto, un fenomeno analogo lo sperimenterete anche Voi quando dovete cimentarVi con i problemi della difesa di uno Stato nazionale.
Oggi, l’arte militare, Voi lo sapete benissimo, è strettamente collegata alla disponibilità di risorse finanziarie e di esperienze tecniche che un Paese può difficilmente realizzare da solo senza essere inserito in un quadro stabile di alleanze militari.
Anche dal punto di vista militare l’unica risposta possibile è quella di un allargamento delle dimensioni del potere politico a livello almeno continentale.
La difesa del proprio Paese significa sempre meno con la difesa del territorio ed è probabile che arriveremo ad una modifica del concetto stesso di patria, che probabilmente i Vostri figli vedranno e sentiranno in modo diverso da Voi.
Del resto non ci sarebbe da stupirsi perché, come Voi sapete, il concetto di Patria è un concetto che si è trasformato nel tempo tanto che anche all’epoca del Risorgimento, ben pochi erano i cittadini che sapeva di essere italiani e non si consideravano invece semplicemente abitanti del Regno delle Due Sicilie o del Granducato di Toscana.
Abbiamo visto che il potere politico stenta a far fronte ai problemi posti dalle dimensioni internazionali dei processi economici.
Ma deve essere chiaro, quando si pensa a questo problema, che esso non può essere affrontato in termini statici.
Non si può chiedere alle imprese multinazionali di fermarsi ad aspettare che gli Stati elaborino una risposta adeguata sul piano politico ai problemi che esse pongono.
Così come– e l’esperienza italiana ce lo insegna — non si può chiedere al potere sindacale, che è l’altra grande forza economica che esiste negli Stati democratici moderni, di bloccare le rivendicazioni dei lavoratori in attesa che lo Stato elabori le risposte adeguate.
Le forze economiche hanno una loro ragione di sviluppo che deve essere indirizzata dal potere politico verso i migliori risultati sul piano sociale; ma per raggiungere quest’obiettivo gli Stati devono elaborare risposte sempre aggiornate, direi quasi inventare strumenti di politica economica sempre nuovi.
Si tratta insomma di una continua sfida dal cui esito dipenderà il futuro della società occidentale.
Se le forze operanti a livello nazionale non riusciranno a tenere il passo dello sviluppo economico e dei suoi problemi, assisteremo ad un progressivo svuotamento del potere politico nazionale.
I maggiori centri decisionali non saranno più tanto nel Governo o nel Parlamento, quanto nelle direzioni delle grandi aziende imprese e nei sindacati, anch’essi avviati ad un coordinamento internazionale.
Gli organi centrali statuali tenderanno sempre più a svolgere un compito di mediazione:
— tra una e l’altra impresa;
—-tra le imprese e i sindacati;
—- tra le imprese e gli organi di autogoverno locale, Regioni e Comuni, che manterranno una particolare vitalità perché in essi si esprime più intensamente la spinta dei cittadini delle democrazie moderne verso una più ampia partecipazione alla gestione della cosa pubblica.
Che il sistema istituzionale si stia profondamente trasformando sotto la spinta dell’economia e soprattutto della tecnologia, lo potete constatare Voi stessi se soltanto riflettete un momento sulla spinta crescente che appunto la tecnologia imprime alla “professionalità” nel Vostro campo.
Gli eserciti nazionali basati sulla coscrizione obbligatoria potrebbero essere destinati a cedere nuovamente il passo ad apparati militari professionali analogamente a quanto avveniva alcuni secoli fa; apparati militari non dissimili nella loro carica di tecnicità da una moderna organizzazione produttiva.
È chiaro però che questo tipo di professionalizzazione delle forze militari porterebbe con sé l’enorme problema del controllo politico su un esercito fatto esclusivamente di tecnici; così come del resto già oggi si pone il problema del controllo politico su una classe manageriale il cui potere è in costante crescita.
Se questo è il tipo di società verso cui ci stiamo avviando.
È facile prevedere che in essa il sentimento di appartenenza del cittadino allo Stato è destinato ad affievolirsi e, paradossalmente, potrebbe essere sostituito da un senso di identificazione con l’impresa multinazionale in cui lavora.
Io non dico che questa prospettiva di svuotamento degli Stati nazionali e di annullamento di quell’insieme di valori ideologici, storici e tradizionali che essi hanno rappresentato sia la prospettiva migliore e auspicabile.
Dico solo che siamo di fronte a una tendenza di fatto della società moderna che potrà essere conciliata con quegli stessi antichi valori soltanto se il potere politico nazionale sarà in grado di rispondere alla sfida dell’economia rinnovando profondamente il proprio ruolo.
Che cosa può fare concretamente il potere politico per esplicare le sue funzioni di difesa degli interessi delle comunità sociale senza per questo condannare il paese ad un tasso di sviluppo rallentato che si risolve in un danno per tutti?
La prima risposta, la più ovvia, è quella di favorire forme di integrazione politica su scala continentale.
È chiaro che se l’Italia è un mercato troppo ristretto per la grande impresa, l’Europa è invece il maggior mercato del mondo.
Se esistesse un interlocutore a livello europeo in grado di esercitare un controllo politico sulle multinazionali, con poteri ben al di là di quelli della Comunità Economica Europea, le iniziative delle multinazionali potrebbero più facilmente contribuire a risolvere gli squilibri economici anziché aggravarli.
Quest’ipotesi però si potrà realizzare soltanto quando i singoli Stati nazionali rinunceranno, almeno in parte, alla sovranità.
È chiaro quindi che si tratta di una prospettiva non a breve termine.
Vediamo invece che cosa si può fare oggi in un’Europa ancora suddivisa in numerosi Stati di dimensioni limitate.
Innanzitutto gli Stati devono farsi promotori di una regolamentazione delle iniziative industriali nel diritto internazionale.
Come sapete il diritto internazionale nasce dagli accordi tra gli Stati sovrani.
Questa è l’unica vera strada per cercare di risolvere problemi che non possono essere affrontati in modo unilaterale né dallo Stato ospitante, né dallo Stato di origine della multinazionale e neppure dell’impresa stessa.
Quest’ultima può sembrare avvantaggiata dalla pluralità degli ordinamenti e dallo stato di incertezza e di mancanza di controlli politici.
In realtà soffre anche tutti gli inconvenienti di una situazione di confusione, che certo non favorisce gli investimenti, e deve inoltre costantemente temere le reazioni ostili che possono insorgere la parte dei gruppi di pressione economica e politica locali.
Mi sembra comunque utopistica la soluzione di chi vuole instaurare un’autorità internazionale, magari nell’ambito dell’ONU, per il controllo delle imprese internazionali.
È più facile e più proficuo cercare una disciplina comune, eventualmente a livello di aree continentali, armonizzando le norme giuridiche, fiscali ed amministrative vigenti nei vari paesi, attraverso, come dicevo prima, una tenace, diuturna attività di contrattazione.
L’età in cui viviamo e del resto, chiaramente sotto il segno del negoziato e della pattuizione; perfino la programmazione da “imperativa” che era, si é fatta contrattuale, e ogni giorno—-si può dire—-il diritto imperio cede il passo al diritto-contratto.
Anche la creazione della cosiddetta società europea, cioè di un nuovo diritto societario che permetta alle imprese di operare a pari condizioni in tutti i paesi della Comunità Economica Europea rappresenterebbe un passo importante in questa direzione.
Ma il protagonista principale del dialogo del potere politico con le imprese multinazionali sarà ancora per molto tempo, l’organo della programmazione nazionale.
Ed io credo che chi è responsabile della programmazione di un Paese debba valutare l’operato delle multinazionali facendo un calcolo che va al di là di qualsiasi diffidenza xenofoba, ma anche di qualsiasi convenienza immediata.
Troppo spesso i responsabili della politica economica, quando esaminano i progetti delle imprese multinazionali dei loro Paesi, si limitano a considerarne la convenienza in termini di royaltyes, di imposte, di quote di importazione, di reinvestimento dei profitti.
Essi non valutano sufficientemente quelle conseguenze che non si ripercuotono immediatamente sul bilancio dello Stato, ma sull’economia in generale, e cioè il tipo di tecnologia introdotta, il livello di autonomia della impresa, la presenza o meno di attività di ricerca, i rapporti che si instaurano con il personale, la possibilità dei dipendenti del Paese di arrivare ad alti livelli decisionali.
Se gli organi della programmazione nazionale vogliono compiere una verifica di questo genere sui programmi delle grandi imprese, l’unica soluzione possibile è la continua contrattazione dei programmi aziendali.
Le imprese oggi operano con programmi a 5-10 o addirittura 20 anni; è giusto quindi che questi programmi sono continuamente verificati con quelli degli Stati per identificare tempestivamente le possibile aree di attrito ed elaborare soluzioni prima di arrivare a conflitti insanabili.
Ha scritto uno dei maggiori esperti delle multinazionali, Cristopher Tungendhat :” la posizione delle imprese é sotto certi aspetti analoga a quella della Chiesa cattolica in passato.
Spesso Re ed Imperatori temevano che la loro posizione di potere fosse indebolita dalla organizzazione internazionale della Chiesa, dalla sua influenza sulle politiche nazionali e dalle sue immesse ricchezze.
Di solito queste tensioni si sono risolte in due modi.
Alcuni paesi hanno rotto con Roma e hanno creato Chiese indipendenti, altri hanno negoziato concordati con il Papa, definendo le rispettive sfere di influenza e creando una cornice giuridica che permettesse loro di lavorare insieme in armonia.
Oggi nessun Paese industriale avanzato può creare Chiese
indipendenti. cioè isolarsi totalmente dalle imprese multinazionali ed internazionali, perché questo significa rinunciare a tutti i vantaggi che tali imprese possono offrire.
L’impresa multinazionale è una realtà politica ed economica del mondo moderno.
Se gli Stati vogliono poter godere del massimo dei benefici che le imprese possono fornire, e ridurre al minimo i costi, devono promuovere intese che permettono di lavorare assieme”.
Signori vi chiedo scusa se vi rubato tanto tempo, ma l’argomento di questa mole e di questa importanza non poteva essere sintetizzato in poche parole.
Da quanto Vi ho detto, io spero che Vi sia rimasta soprattutto una sensazione: che il mondo sta cambiando rapidamente, e che il ruolo di ciascuno di noi sarà chiamata a svolgere in futuro potrebbe essere molto diverso da quanto ci aspettiamo.
Perciò, rivolgendomi a voi, ufficiali di domani vorrei concludere con una esortazione: non disdegnate le scienze politiche, non trascurate lo studio dei fenomeni sociali, approfonditeli con attenzione e meditate sulle loro linee evolutive.
In poche parole, occupatevi di politica.
Non certo come militari, come casta, ma come cittadini, per dare un senso al vostro impegno di fedeltà alla Costituzione repubblicana.
Studiate i problemi del mondo che vi circonda; riflettete sull’importanza del Vostro ruolo in un’epoca che non può più permettersi la guerra.
La difesa della Patria, del pezzo di terra su cui si è nati e cresciuti, non si realizza oggi solo attraverso la lotta armata per difenderne i confini, ma anche con una chiara coscienza di quei valori di libertà, di democrazia e di giustizia sociale su cui si è costruita la nostra Repubblica.
Siate i difensori di questi valori, e in Voi si perpetuerà la migliore tradizione dell’Esercito Italiano.[/i]