La memoria non è un mercato delle pulci

I politici attuali glorificano a caso quelli del passato. cercando di colmare così il loro vuoto
MARCO FOLLINI
L’indomani della Rivoluzione, come è noto, i nobili francesi si rifugiarono a Coblenza a rimuginare sul loro destino e a sognare un improbabile ritorno in patria. Di loro si disse che non avevano imparato niente e non avevano dimenticato niente.
Per chi ai giorni nostri non coltiva né la nostalgia di Luigi XVI né l’illusione di Robespierre i conti con l’apprendimento e quelli con il ricordo sono ovviamente un po’ diversi. Un po’, ma non troppo. Infatti anche noi tendiamo a imparare poco e forse anche a dimenticare poco – a dispetto delle nostre stesse parole d’ordine. Ci raccontiamo che tutto è inedito, è vero. Mai accaduto prima d’ora. Ma poi invece rovistiamo quasi ogni giorno negli armadi dei nostri progenitori per cercare ispirazione e conforto. La nostra memoria collettiva continua imperterrita a spulciare negli annali della Repubblica che fu, alla ricerca di nobili precedenti a cui aggrapparsi, di virtuosi esempi a cui ispirarsi e di mitiche figure onuste di gloria da cui trarre qualche spunto per noi stessi.
L’affettuoso saccheggio del passato in cerca di esempi, citazioni, aneddoti, consolazioni sembra essere una delle attività preferite dei leader in campo e dei loro ghostwriter. Si compra nel passato il credito di cui il presente non dispone. Da un certo punto di vista, ce ne potremmo quasi rallegrare. Se infatti gli alfieri della Terza Repubblica si rivolgono a Togliatti o a De Gasperi o a Nenni, se il Recovery Plan non è altro che la rivisitazione del piano Marshall, se perfino i populisti preferiscono evocare don Sturzo piuttosto che Guglielmo Giannini, forse vuol dire che le migliori radici politiche del paese sono ancora ben piantate per terra e magari, chissà, possono regalarci qualche frutto.
Appena qualche anno fa il passato repubblicano era terra bruciata, e l’unica prospettiva sembrava quella di cavalcare verso territori sconosciuti. Ora invece viene quasi da consolarsi al pensiero che si stia cercando in tutti i modi di onorare il debito che abbiamo con i padri (nonni, a questo punto) della nostra storia. Sarà pure un altro omaggio reso dal vizio alla virtù, ma si può dire che quella virtù è meritevole e quel vizio non è poi così grave.
Ora però si dovrebbe cercare di elaborarlo, quel passato. E non lasciarlo lì, vanamente rimpianto e inutilmente ricordato, al modo in cui usavano i nobili rintanati a Coblenza. E qui, invece, il nostro asino finisce per cascare.
Il fatto è che tutto questo richiamarsi alla mitologia degli esordi repubblicani ha in sé qualcosa di equivoco. Noi stiamo infatti ingarbugliando i fili del passato e facendo una discreta confusione tra le molte memorie che lo attraversano. Il caso del comune di Terracina, dove si voleva intestare una strada ad Almirante e Berlinguer, accomunati dalla toponomastica di oggi per quanto erano divisi e contrapposti dalla politica di ieri e ieri l’altro, è solo il caso più eclatante. Ma non è l’unico. È già capitato che qualcuno dei nostri attuali statisti in erba abbia dichiarato di ispirarsi al meglio di De Gasperi, di Berlinguer e di Almirante (ancora), tutti insieme appassionatamente, quasi indifferenti l’uno all’altro. E che altri abbiano farcito i loro discorsi di citazioni di questo e di quello, incuranti di evocare di volta in volta i nomi di persone che ai loro tempi se le erano date di santa ragione. In attesa che arrivi anche il momento di Prodi e Berlusconi, magari finendo con l’accomunare perfino loro, si può segnalare che un po’ tutti i leader della nostra vicenda storica hanno avuto il loro attimo di gloria ad opera di successori che non avrebbero mai immaginato – né, forse, prediletto più di tanto. Una gloria che ora sembra radunarli sotto lo stesso tetto ma che invece non dovrebbe prescindere dalle abissali differenze che correvano tra molti di loro.
La bislacca idea che si debba per forza avere una memoria condivisa, uniformando i nostri giudizi laddove i nostri ricordi continuano ad essere difformi, ingenera così una doppia stortura. Una rivolta verso il passato che non sappiamo più elaborare. L’altra rivolta verso il presente che non sappiamo più riconoscere.
In una parola noi stiamo coltivando una memoria disordinata e confusa, troppo strumentale e celebrativa. Quasi una sorta di riedizione dell’album delle figurine Panini, dove però non figurano più le squadre e si sbiadiscono i colori delle maglie che accendevano le passioni delle opposte tifoserie. Così, si mettono insieme alla rinfusa fascisti e comunisti, laici e cattolici, notabili di tutti i colori buoni per tutti gli usi. Si celebra un lungo periodo della storia patria come fosse un tutt’uno ma poi se ne occultano pudicamente le differenze, i conflitti, le asprezze.
Finiamo così per raccontarci una storia edulcorata, di cui si perde quel senso drammatico e quel gusto controverso che i nostri padri conoscevano fin troppo bene e a cui erano perfino, a modo loro, affezionati. L’esito di tutto questo è che si appannano, insieme, la nitidezza dei ricordi e il valore delle differenze. Si vorrebbe chiamare a raccolta le grandi figure nel nome di un improbabile “embrassons nous”. Dimenticando che il nostro passato si è fatto largo invece a furia di dispute e contrasti. E che non si può raccontarlo oggi come fosse un prato fiorito, in cui ognuno può cogliere il fiore che più gli aggrada, e magari fare un mazzolino in cui radunare con disinvoltura gente che ha speso la vita a combattersi.
Il fatto è che i grandi di una volta erano grandi anche per le bufere che attraversavano e per tutti i venti che soffiavano contro di loro. I più convinti delle proprie buone ragioni menavano quasi vanto delle maldicenze degli avversari, vissute all’epoca come un involontario tributo al valore. Molto probabilmente nessuno di loro aspirava alla glorificazione futura. Contavano semmai di trarre la gloria dal loro presente. Che era l’unità di misura delle riuscite e delle cadute, anche per quelli che guardavano più lontano.
La gran parte di loro, insomma, non ambiva tanto a farsi celebrare nei manuali di storia. Né, credo, a venire onorati dalle citazioni di lontani successori che non conoscevano (e che magari non avrebbero apprezzato più che tanto). La loro ambizione era piuttosto quella di cambiare e migliorare la vita dei contemporanei. Sospinti dal consenso della loro parte. E magari anche lusingati dal fastidio che potevano arrecare alla parte avversa.
L’ecumenismo dei ricordi vorrebbe essere il segno di uno spirito inclusivo e di una costruttiva e pacifica volontà di dialogo. Tutte cose che ci mancano.
Così, cerchiamo nel passato quello che non troviamo nel presente. A conferma del fatto che ogni stagione ha le memorie che si merita, oppure quelle che si illude di meritarsi. E che a noi purtroppo tocca più l’illusione che il merito.
Dunque, se si vuole dedicare attenzione a quelle storie occorre innanzitutto contestualizzarle. Collocarle nel solco di quegli anni e riconoscere lealmente che il nostro presente – bello o brutto che sia- non ha molto a che vedere con i nostri antenati di maggior pregio. Quegli antenati hanno diritto alla loro storia, che non necessariamente coincide con la nostra.
La memoria è sempre uno scaffale bene ordinato di una libreria magari un po’ impolverata. Non è il mercatino delle pulci dove si accumulano alla rinfusa i resti di molti arredi di case e palazzi che la gran parte degli acquirenti che passeggiano lì intorno non ha mai abitato.