La maledizione del credito.

 

SETTEGIORNI
Strano paradosso per una forza di sinistra perdere consensi a causa delle banche: come nel 2013 la crisi di Mps costò a Bersani la «non vittoria» e il suo ingresso a palazzo
Chigi, il crac di Etruria rischia di
trasformare Renzi in un Dorando Pietri a pochi passi dalle urne.
Cinque anni di distanza, in mezzo una rottamazione e mille giorni di riforme: eppure il Pd sembra tornato al punto di partenza, quasi fosse il luogo del delitto. Persino le percentuali del partito finiscono per coincidere: Bersani alle ultime elezioni aveva raccolto poco meno del 25%, che è il numero accreditato oggi a Renzi dai sondaggi. C’è una formidabile analogia tra due le vicende anche nel modo in cui il leader di turno è costretto a rimediare ad errori altrui. «Il Pd si occupa di politica e non di banche», disse Bersani nel 2013 per ripararsi dal ciclone, proprio mentre D’Alema sulla Stampa rivendicava che «noi, e per noi intendo il Pd senese, abbiamo cambiato da un anno i vertici di Mps». Esattamente come ora Renzi ricorda di aver commissariato Etruria con il suo governo, mentre Boschi rammenta volta per volta i suoi colloqui «istituzionali».

Le banche sono insomma l’alfa e l’omega di un partito che sulle banche prima si è scontrato e poi si è diviso. Un tempo, quando non era contemplata la scissione, gli eretici si limitavano a denunciare il loro accantonamento. «Consorte e D’Alema fecero pressioni perché Mps si alleasse con Unipol nella scalata alla Bnl», rivelò a Panorama Bassanini: «Chi difese l’autonomia dell’istituto, come me e Amato, venne emarginato». Più tardi Renzi – in segno di sfida – sarebbe partito dalla Leopolda e giunto fino a Siena per concludere la campagna delle primarie. Quella volta perse da Bersani, ma dell’ultimo comizio a volte evoca con gusto la frase di un compagno che gli disse: «Matteo, te tu sulla banca hai ragione. Eppoi con Massimo si perde sempre».

Con «Massimo» e la «ditta» voleva regolare i conti dopo la separazione, e incurante dei consigli delle massime cariche dello Stato decise di farlo con la Commissione d’inchiesta (appunto) sulle banche, convinto così di poter mostrare al Paese «la trave» Mps. Invece in Commissione a risaltare è stata la «pagliuzza» Etruria. Una sorta di eterogenesi dei fini, alla quale Renzi l’altra sera su La7 ha provato a ribellarsi: «In questi anni ci sono state ruberie a tutti i livelli. Penso alle banche comprate a sei miliardi e rivendute a nove, mi riferisco a Mps e Antonveneta. Penso a scandali clamorosi come l’acquisizione di Banca 121 sempre da parte dei soliti toscani. E si parla solo di Etruria».

Sarà pure «la più gigantesca arma di distrazione di massa», come la definisce il leader del Pd, ma è proprio nel buco di bilancio di quel piccolo istituto di credito vice presieduto dal papà di Boschi che Renzi sta vedendo precipitare le sue azioni politiche. Persino la storica approvazione di una legge come il biotestamento è passata in secondo piano nel giorno in cui la sottosegretaria alla Presidenza ha letto l’sms del tete-à-tete propostogli dal presidente della Consob. Il jobs act, l’Imu per la prima casa, il bonus di ottanta euro, l’aumento del Pil e dell’occupazione sembrano dissolversi: «Le luci della legislatura – come ha scritto Folli su Repubblica – vengono soverchiate dalle ombre». E se è stata la Commissione – che Mattarella vuole si chiuda nel giorno in cui scioglierà le Camere – a fare da ulteriore cassa di risonanza al caso Etruria, vuol dire che il Pd non è in grado di governare i processi politici. Come accadde ai tempi di Bersani, nel tentativo di avere (o di salvare) una banca, la sinistra la perde e rischia di perdere anche i voti.

Francesco Verderami

Corriere della Sera.
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