La mafia vive finché serve. Il polipartito della piovra

Gian Carlo Caselli il CorruzioneGiustiziaIstituzioniMafiePoliticaSocietà

La restaurazione. Dopo le stragi e la morte di Falcone e Borsellino, lo Stato, la politica e i cittadini vissero una stagione di rinascita che fu sopita da coloro che avevano ancora bisogno di Cosa Nostra

C’era una volta che della mafia si parlava solo per negarne l’esistenza.

Due esempi illustri fra i tanti possibili: un cardinale e un magistrato. Il cardinale Ruffini, in un’omelia del 1964, additò come fattori che maggiormente disonoravano la Sicilia: Danilo Dolci, Il Gattopardo e… il gran parlare di mafia. Nel 1965, in un processo per l’assassinio del sindacalista siciliano Salvatore Carnevale, Tito Parlatore, procuratore generale presso la Cassazione, se ne uscì sostenendo che “gli imputati non sono mafiosi, bensì portatori di una mentalità mafiosa. La mafia è materia per conferenze e come tutti i problemi sociali esula dalle funzioni della Corte di cassazione”.

Se non esisteva la mafia, figuriamoci i rapporti mafia-politica! Anche se ovviamente tutti sapevano che la mafia esisteva e si nutriva del suo “contubernio” con pezzi del mondo “legale” (politica, amministrazione, imprenditoria). Lo sapeva bene Carlo Alberto dalla Chiesa, che in Sicilia aveva arrestato gli assassini dei sindacalisti come Carnevale e che, quando venne nominato superprefetto antimafia di Palermo, in un colloquio con Spadolini spiegò che voleva colpire il “polipartito della mafia”, per indicare appunto la compenetrazione fra Cosa Nostra e certa politica.

Dalla Chiesa venne ucciso dalla mafia 5 mesi dopo, il 3 settembre 1982. Da allora più nessuno osa negare l’esistenza della mafia (“codificata” nell’art. 416 bis). Si diffonde però un virus surreale, la tendenza a presentare in chiave di “riduzionismo/negazionismo” i rapporti mafia-politica: invenzione di indagini “creative”; fenomeno localistico, articolatosi quasi soltanto sul terreno degli appalti pubblici; “mala-politica” locale che non avrebbe mai contaminato quella nazionale. Per contro, la lettura degli atti e delle sentenze dei processi “politici” (Andreotti e Dell’Utri in particolare) non sancisce affatto la cronaca di una modesta e arretrata realtà periferica, ma i tempi – appunto – della storia nazionale: talora nel quadro di una tragedia incombente con orrende cadenze di morte.

E attenzione. Se qualcuno sta sbuffando (rieccoci con questi casi giudiziari: non se ne può più), va detto che non è solo un problema di processi. Si percepisce in filigrana un problema di qualità della democrazia. Negare o distorcere la verità, cancellare o ignorare i gravissimi fatti concreti posti a fondamento dei processi “politici” (quelli sopra citati e altri ancora), era ed è come svuotare di significato l’intreccio mafia-politica che dai processi chiaramente emerge. Di fatto legittimando tale intreccio non solo per il passato, ma anche per il presente e il futuro. Una legittimazione estremamente pericolosa per la buona salute della nostra democrazia.

Non solo: chi tocca i fili deve mettere in conto che sarà colpito da fulmini e saette (attacchi e calunnie). Il pool di Falcone e Borsellino era ben visto finché si occupava dei “malacarne” (mafiosi di strada); ma quando comincia a occuparsi di Ciancimino padre, dei cugini Salvo, dei Cavalieri del lavoro di Catania, del Golpe Borghese, ecco le aggressioni: professionisti dell’antimafia, uso spregiudicato dei pentiti, politicizzazione, pool trasformato in centro di potere e via inventando… con l’esito suicida (per gli onesti) dello smantellamento del pool e del suo metodo vincente.

Qualcosa di simile – ma non identico – accade al pool di Palermo del dopo stragi (ne ero il coordinatore in quanto procuratore capo). Finché si è trattato di mafiosi doc come Riina, Brusca, Bagarella, Aglieri, Graviano e altri pezzi da 90, bene. Ma quando le inchieste si sono rivolte a Mannino, Musotto, Andreotti, Dell’Utri, Contrada, Carnevale… apriti cielo! Scattano le stesse accuse mosse a Falcone e Borsellino. Dopo le stragi, superato l’iniziale disorientamento, vi fu una reazione energica e compatta delle forze dell’ordine, della magistratura, della società civile (le lenzuola bianche di Palermo) e della politica, per un biennio magicamente unita.

Cosa Nostra era alle corde. Sembrava fatta. Ma qualcuno, sfruttando le polemiche calunniose scatenate ad arte, perché erano stati violati i santuari del connubio mafia-politica, ha preferito “zavorrare” il contrasto antimafia: e i “nemici” sono diventati non più i mafiosi e i loro complici, ma i magistrati e i pentiti…

Come ciò sia potuto accadere lo spiega lo storico Salvatore Lupo in uno scritto del 2002, parlando di una “richiesta di mafia” in settori della società civile, dell’imprenditoria, della politica, del sistema finanziario ed economico. Già nella campagna elettorale del 1994, ricorda Lupo, partì “un attacco, che allora nell’opinione pubblica nessuno accettava, alla legge sui pentiti” e vi fu un “assalto della magistratura quando la magistratura era sulla cresta dell’onda”. Se fosse stato soltanto un problema di consenso – sostiene ancora Lupo – nessun uomo politico avrebbe azzardato queste operazioni. Furono dunque operazioni “per il futuro, perché c’è bisogno di mafia o di altre cose analoghe alla mafia”. Perché occorre “che i magistrati non ci siano più… Perché domani si arrivasse di nuovo a dire: non sappiamo se c’è l’organizzazione mafiosa, comunque sono quattro fessi, non ci interessa”.

Semi che germogliano. Tant’è che Berlusconi (settembre 2003) argomentando sulle accuse ad Andreotti per i suoi legami con Cosa Nostra, arriverà a tuonare che i giudici “sono doppiamente matti! Per prima cosa, perché lo sono politicamente, e secondo sono matti comunque. Per fare quel lavoro devi essere mentalmente disturbato, devi avere delle turbe psichiche. Se fanno quel lavoro è perché sono antropologicamente diversi dal resto della razza umana”. Ed ecco – in progress – che lo stalliere Mangano diventa un “eroe”, mentre Dell’Utri, oggi, si propone come arbitro della politica siciliana. C.V.D.: quasi un teorema.

Un “fil rouge che si dipana fino a oggi, anche con nuovi protagonisti e progetti assortiti, in particolare quelli sulla separazione delle carriere o sulla responsabilità civile dei giudici o sul fascicolo/schedatura dei magistrati. Pseudo riforme fatte apposta – si direbbe – per “normalizzare” la magistratura spingendola verso una interpretazione burocratica del proprio ruolo che eviti i guai. Come quelli che segnano le inchieste su politici accusati di collusione con la mafia (o di corruzione). Senza inchieste questi rapporti non esistono più. Et voilà, il gioco è fatto.

Il Fatto Quotidiano, 07/05/2022

 

 

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