di Alessia Rastelli
«La civiltà digitale in cui viviamo ebbe origine da una svolta mentale: il rifiuto del Novecento e dei suoi disastri. Per questo è stata caratterizzata fin dall’inizio dal movimento e dal campo aperto, contro la fissità, i sistemi bloccati, muri e confini. Be’, ora è chiaro più che mai che questo viaggio, avviatosi nella controcultura californiana diversi decenni fa, ce lo siamo scelto noi occidentali ma non è condiviso da un’altra grande parte di mondo».
Alessandro Baricco, terminata la convalescenza dopo il trapianto per una leucemia, torna su «la Lettura» e riflette sulla guerra in Ucraina. Oltre che romanziere bestseller, lo scrittore indaga da anni sulle rivoluzioni mentale e tecnologica che ci hanno condotto fino all’attuale civiltà. The Game, la chiama l’autore (stesso titolo del suo saggio del 2018, Einaudi Stile libero). Un nome scelto per sottolineare di questa nuova era il ritmo, la dinamicità, la spettacolarità, che trovano il loro imprinting nei videogiochi. E un percorso che, attraverso varie altre sperimentazioni, ha portato lo stesso Baricco da un monologo teatrale come Novecento (Feltrinelli, 1994) — in cui il protagonista viene chiamato appunto Novecento perché, neonato abbandonato, era stato trovato «nel primo anno di questo nuovo, fottutissimo secolo» — alla realizzazione di un Nft di quello stesso testo: un’opera unica digitale certificata dalla tecnologia.
In queste pagine lo scrittore prova a capire a che punto siamo, che fine faccia tutto questo di fronte a un conflitto che sembra riportarci prepotentemente indietro proprio nel Novecento. Se appare indubbio che il Game — inteso non solo come un insieme di strumenti tecnologici ma come un modo di pensare — non sia stato abbracciato fuori dall’Occidente, è vero anche, prosegue Baricco, che «in questo momento la nostra stessa parte di mondo vive una quasi totale immobilità e impasse».
Come interpreta questo ritorno a una guerra del passato?
«Il fatto stesso che noi occidentali, americani ed europei, lo avvertiamo come un conflitto così vecchio, tragicamente sorpassato, è un primo segnale. L’effetto obsoleto che ci fanno i carri armati, i bombardamenti, i confini, le divise, mostra il passo avanti che abbiamo fatto nella nostra percezione della guerra. Un cambiamento costruito negli anni, a cui credo che l’avvento della civiltà digitale abbia dato un’ultima spallata. Il secondo aspetto che possiamo registrare è appunto che il Game è una strada che ci siamo scelti in Occidente, non è condiviso sicuramente dalla Russia putiniana, dalla Cina, in questo momento non credo neppure dall’Africa e bisognerà capire in America Latina. C’è una parte di pianeta, più grande della nostra, che ha in mente idee diverse, che usa il digitale come uno strumento, non come un modo di stare nel mondo. Ciò non vuol dire che noi siamo migliori, c’è una razionalità differente e bisogna interrogarsi su come comportarsi con chi ha in testa altre cose».
Il Game non ha funzionato rispetto alla guerra?
«Il cammino abituale degli umani è fatto di due passi avanti e uno indietro. Questo conflitto è un evidente passo indietro ma i risultati del Game non vanno sottovalutati. Innanzitutto rende più difficile la guerra. Il campo aperto in ambito economico, ad esempio, con le sue interconnessioni, complica a tutti la via dello scontro. Sia il Paese aggredito sia il Paese aggressore, inoltre, oggi sono inseriti, nel bene o nel male, in un sistema più fluido di informazioni, alleanze, aiuti. E forse questo è un aspetto che i russi non hanno ben considerato. Pensiamo alla quantità di notizie che riceviamo dall’Ucraina o al fatto che il leader di un Paese assediato abbia potuto partecipare alle sedute di altri Parlamenti. Anche l’idea di un uomo solo, Elon Musk, che salvaguarda con i suoi satelliti la connettività dell’Ucraina sembrava impensabile. Putin ha buttato giù la torre della tv a Kiev, ma è stata una mossa quasi inutile».
Anche la Russia usa gli strumenti digitali, incluse sofisticate tecnologie piegate alla disinformazione.
«Sì, c’è il corrispettivo che anche la fabbricazione delle menzogne dispone adesso di tecnologie inusitate. Ma in generale mi pare che gli elementi digitali complichino di più la vita a chi vuole fare la guerra, a chi vuole risolvere un problema politico con l’aggressione militare».
Proprio la nostra civiltà, la sua penetrazione nei Paesi vicini alla Russia che in passato gravitarono nell’orbita sovietica, sono avvertite da Putin come una minaccia.
«C’è una forma di rifiuto di un certo possibile sviluppo della comunità civile. Un “no” in nome di un altro progetto che Putin incarna, condiviso da tutti coloro che lo amano. Questo progetto è partito molto prima, ha un passo lento, imperiale. In Russia la storia ha un respiro assai più lungo che in Occidente, dove viviamo in un frenetico cantiere in divenire. Anche la Cina ha un respiro simile a quello della Russia. Da parte occidentale è urgente capire che la nostra non è l’unica lettura possibile del mondo, che l’approccio non può essere solo considerare pazzo, stupido o cattivo chi ne ha una diversa. Dopodiché ovviamente, se come nel caso dell’Ucraina il distillato di certe convinzioni diventa l’aggressione militare a un’altra comunità civile, questo noi occidentali possiamo giudicarlo, siamo molto fermi nel condannarlo, e penso che facciamo bene. Ma non abbasserei comunque la soglia di autocritica».
C’è chi sostiene che proprio un eccesso di autocritica dell’Occidente lo indebolisca rispetto alle autocrazie.
«È un problema che avevano già gli ateniesi. Sapevano che fermarsi a discutere era più macchinoso, che il confronto complicava le cose anche in guerra. Ma avevano capito che la coscienza democratica incuteva maggiore forza in quelli che combattevano. Lo vediamo ora in Ucraina che differenza c’è se schieri cittadini o sudditi imperiali. Il problema semmai è che, da qualche anno, nelle democrazie occidentali la disponibilità al dibattito autocritico s’è ridotta al minimo».
Che cosa intende esattamente?
«Accade che, sull’onda delle emergenze, tendiamo a un allineamento compatto, riducendo la capacità psicologica di tollerare la differenza, il dubbio. Così oggi tutta la nostra vita intellettuale, o almeno la stragrande maggioranza, è arroccata su una linea difensiva così debole da essere diventata ciecamente forte. È come se la nostra intelligenza collettiva, soprattutto quella delle élite, si fosse infilata in un regime di guerra in cui non si può più permettere niente, tranne parole d’ordine che ti aiutano a combattere».
Perché sta accadendo?
«La storia degli ultimi dieci anni, quando la rileggeremo fra molto tempo, ci apparirà anche come quella di un’enorme rivolta contro le élite. Vanno in questa direzione, ad esempio, la rivoluzione digitale e il populismo. E quindi l’élite occidentale si è messa sulla difensiva, appunto in un regime di guerra. Ma proprio un conflitto reale, quello in Ucraina, ci sta mostrando chiaramente che quando si è in guerra non c’è spazio per i distinguo».
Come procede oggi la rivolta contro le élite?
«Dobbiamo constatare che è fallita. Viviamo un’epoca di completa restaurazione, ottenuta in gran parte attraverso la gestione delle emergenze. In questo senso la pandemia è stata decisiva. Provando a guardare tutto un po’ più dall’alto, possiamo leggere sia la riduzione del pensiero critico sia il ritorno a una guerra del passato come elementi di uno stesso ciclo di restaurazione su più larga scala».
Le crisi non potrebbero invece aprire opportunità di trasformazione?
«Non in Occidente, dove mi pare che la modalità dell’emergenza rallenti moltissimo il cambiamento a livello politico-istituzionale. Con il Covid molti “rivoltosi” si sono spaventati. E di nuovo lo Stato e la nazione sono diventati beni rifugio. Non era così nel pre-pandemia. L’Italia, che politicamente arriva sempre prima degli altri, è un esempio: i Cinque stelle o la Lega, che a loro modo sono stati rivoltosi, oggi sono in posizione piuttosto servile in un governo guidato da una figura che, anche se in modo molto alto ed efficace, incarna un certo tipo di razionalità dell’élite novecentesca. Quest’ultima è stata più tosta dei suoi avversari, più resistente, compatta, radicata».
I rivoltosi hanno responsabilità?
«Ne fanno parte componenti diverse, ma sono stati comunque deludenti. Anche l’ala del Game ha pagato l’assenza di pensiero. Diceva Stewart Brand, una delle menti dell’insurrezione digitale: “Cambia gli strumenti che usa la gente e cambierai la civiltà”. Ora noi possiamo aggiungere che però non riuscirai a farlo in modo stabile e forte. Il Game non ha saputo articolare né un’intelligenza né un’élite nuove. Non credo la soluzione fosse il populismo al potere. Era auspicabile che, sotto la spinta dei rivoltosi, le stesse élite novecentesche producessero una generazione nuova, capace di capire le ragioni della protesta e cambiare le regole del gioco. Trump avrebbe potuto avere questo effetto. Ma abbiamo Biden. Credo sia successo perché l’ex presidente ha alzato il livello dello scontro e la vecchia élite è entrata nella modalità di guerra che non concede sogni né rivoluzioni mentali».
Sembra un circolo vizioso…
«C’è immobilismo. L’Occidente non è in una fase di generazione ma di ripiegamento. Si sente debole, non è sicuro di sé. Ci sono la crisi climatica, la pandemia, la guerra. È tutto orribile, ma dobbiamo capire, lo ripeto, che siamo fermi anche dal punto di vista del pensiero. Credo che stiamo pagando pure una sorta di eccessiva mitezza, di mancanza di aggressività da parte di un paio di generazioni, quelle di chi oggi ha tra i 25 e i 35-40 anni. Sono brillanti, hanno il diritto e il dovere di negoziare il futuro ma non si stanno sedendo al tavolo. Ci hanno provato con la causa ambientale, anche quella comunque un’emergenza, scavalcata quando ne sono arrivate di più urgenti. Non credo succeda solo per la resistenza delle vecchie élite, né che sia tutta colpa di noi padri. Ma confesso che fatico a spiegarmelo».
Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky è nato nel 1978, la premier finlandese Sanna Marin nel 1985. Entrambi guidano Paesi che spingono verso Occidente. Qualcosa si muove in Europa o tra chi vorrebbe farne parte?
«L’Europa è una comunità in questo momento sveglia, uscita dal torpore. Certo, molte posizioni sono ancora vecchie, facciamo fatica a costruire un’identità, però sotto il peso della rivolta contro le élite l’Ue ha dovuto migliorare e, in seguito alla pandemia, ha sciolto molti blocchi. Resta poi il delicato tema dell’autonomia dagli americani. Senza volerli demonizzare, stiamo provando in tutti i modi a esercitare la nostra indipendenza, ma rimaniamo comunque uno dei soggetti di un’area del mondo bene o male controllata dal più forte. Però il margine di manovra che abbiamo stiamo almeno incominciando a usarlo bene».
In Italia si discute se certe posizioni pacifiste siano anch’esse frutto di retaggi del passato.
«Il pacifismo include posizioni diverse, è importante non semplificare. Una ad esempio è quella di Papa Francesco, secondo cui la guerra è un sacrilegio. È un termine forte, che vale per i credenti ma anche per molti pacifisti laici. Indipendentemente da come la si pensi, va ricordato che c’è un’umanità bellissima tra i pacifisti. Anche quando la loro posizione può sembrare ingenua o strumentale, ci sono comunque saggezza e maturità in esseri umani capaci di tenere sempre saldo quel principio. Penso sia anche sbagliato chiedere loro cosa fare una volta arrivati a questo punto. Siamo ormai all’ultimo tassello di una lunga partita a scacchi giocata male, in cui se le prime mosse le avessero fatte autentici pacifisti, forse una strada si sarebbe trovata. I paragoni che sento con la Germania nazista mi sembrano fuori luogo. Qui vedo piuttosto un problema che viene da lontano, legato all’appartenenza a una certa area del mondo e come tale forse si sarebbe potuto affrontare e cercare una soluzione prima di arrivare dove siamo».
Le Big Tech, le grandi compagnie tecnologiche che tanto peso hanno nell’economia ma anche nella nostra civiltà, avrebbero dovuto spendersi di più contro la guerra?
«Non è nella loro vocazione. Di tanto in tanto intervengono per piccole correzioni perché investite direttamente su singoli problemi, come le fake news o appunto i satelliti di Musk. Però la loro concezione è laica, la loro idea è che la storia si debba fare da sé. Potrebbero ricordare le divinità degli antichi, potenti ma incuranti dei destini umani. Alla fine, ciò che constatiamo è che queste aziende si sono date un gran da fare a costruire il tavolo in cui si decide il futuro, però non si stanno sedendo neanche loro».
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