La grande corsa per comunicare (prima degli altri)

decisioni e parole

 

di Antonio Polito

 

Prendiamo le mascherine. Ci hanno detto per un po’ che servivano solo a chi era già infetto, non a chi voleva evitare di infettarsi, perché penetrabili. Ci abbiamo creduto, anche se non abbiamo mai ben capito perché mai fermassero il virus in uscita ma non in entrata.

ra invece ci vengono caldamente consigliate anche per fare la spesa, e i ministri le indossano in pubblico con nonchalance. Forse sarebbe stato meglio dire la verità: ce n’erano poche (sono ancora poche) e dovevamo lasciarle agli operatori sanitari. Sarebbe stato più onesto e più ragionevole.

Vi sembra una storia italiana? Lo è. Però l’ho presa dal New York Times del 17 marzo, ed è relativa agli Stati Uniti. Da loro è successa esattamente la stessa cosa che da noi. Dunque attenzione: in questo articolo esamineremo molti e talvolta gravi errori di comunicazione delle nostre autorità, ma senza mai dimenticare che non siamo i soli ad annaspare, come ampiamente testimoniano le svolte a U di Donald Trump, le teorie sui greggi di Boris Johnson e il turno elettorale fatto svolgere da Macron un attimo prima di chiudere la Francia.

Il brivido notturno del Dpcm, cioè del decreto del presidente del Consiglio annunciato dal presidente del Consiglio, di solito dopo adeguata e forse manovrata fuga di notizie e di bozze, al termine di una lunga e ansiosa attesa della nazione, ma su una piattaforma digitale americana, e senza accettare domande dai giornalisti, è il tratto distintivo di questa comunicazione. Già il fatto che ce ne siano stati a ripetizione (il 23 febbraio, il 25 febbraio, il 1 marzo, il 4 marzo, l’8 marzo, l’11 marzo, e il 22 marzo) ci dice che siamo all’inseguimento, sempre un passo indietro al virus, o forse alle Regioni del Nord, che decidono prima del governo, costringendo il governo a decidere in fretta per non far vedere che decidono le Regioni. Nella rincorsa generale si lascia sempre qualcosa per strada. La prima volta gli studenti, incerti se il giorno dopo ci fosse scuola o no, la seconda volta i meridionali, che nell’incertezza se ne sono tornati di corsa a casa, la terza i supermercati, non citati e dunque presi d’assalto all’alba; senza parlare della passeggiata o corsa che sia, le cui distanze e frequenze hanno acceso un appassionato dibattito nazionale degno di miglior causa, e scatenato una vera e propria caccia al runner. Fino a tarda sera, a dire il vero, nessun lavoratore italiano sapeva ieri neanche se stamane sarebbe dovuto andare al lavoro o starsene a casa (viaggiare è vietato), perché dopo aver annunciato l’ultimo Dpcm che chiude le fabbriche non essenziali si è cercato per 24 ore di districare la matassa della modernità, nella quale ogni produzione è intrecciata a un’altra. E se seguendo le classificazioni dei settori Ateco (un indice statistico troppo antico) incontri un prodotto plastico (mettiamo tappi) apparentemente non essenziale, e poi scopri che serve a confezionare le medicine, ovviamente essenziali, devi ricominciare da capo. Meglio sarebbe stata una autocertificazione: ogni imprenditore dichiara se produce beni per un filiera consentita. Meglio ancora sarebbe stato prima scrivere il provvedimento e poi comunicarlo.

La verità è che ogni Paese è quello che è, e non c’è niente come una calamità per svelarne i pregi e i difetti. Sui pregi, inutile dilungarsi, ci vengono abbondantemente ricordati ogni giorno alla conferenza stampa delle 18, in quella che è diventata la Spoon River di questa crisi, e di fronte al numero dei morti si resta così senza parole, così a corto di spiegazioni, che non resta che ringraziare i tanti, meravigliosi, coraggiosi medici e infermieri che stanno salvando vite e piangendo morti al posto dei famigliari. Sui difetti, invece, dovremo parlare, e molto. Ma quando questa storia sarà finita, perché chi è senza peccato scagli la prima pietra. L’ossessione formalistica, innanzitutto, per cui da noi tutto è norma e niente è autoregolamentazione, e la gente è stata abituata fin dai tempi di Renzo e Lucia a cercare nelle pieghe delle «gride» l’illecito possibile perché non esplicitamente vietato: «In guerra di formalismo si muore», ha scritto ieri in chat uno dei non pochi valorosi dirigenti costretti alla quarantena da un tampone positivo.

In secondo luogo si vede a occhio nudo la cronica carenza organizzativa e di materiali, che ci ha fatto ritirare subito dal fronte dei tamponi a oltranza con la presunzione che «l’Italia è più sicura degli altri Paesi», mentre oggi in molti rimpiangono di non aver proseguito sulla strada del Veneto, che ha isolato prima e meglio i positivi. Poi c’è stato il tira e molla sul distanziamento sociale, con il ministro della Salute Speranza che tirava per chiudere tutto anche quando Zingaretti faceva gli aperitivi per non chiudere Milano. Tanto che oggi Walter Ricciardi, il nostro esperto dell’Oms, dice che le misure prese sono giuste, «però le avrei prese dieci giorni prima».

In fondo alla lista, ma solo per carità di patria, c’è infine il problema di chi comanda. Sul Corriere.it si leggeva ieri un elenco delle misure prese dalle Regioni in difformità o in aggiunta a quelle dello Stato. In Emilia chiudono i supermercati di domenica, in Alto Adige è vietato sedersi sulle panchine, dalla Calabria non si entra e non si esce, dalla Sicilia si esce massimo una volta al giorno. Affrontare l’epidemia in una democrazia, si sa, è difficile. Ma qui si esagera.

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