LA GRANDE BUGIA DI SALVINI.

 

Il retroscena
La scorsa settimana, mentre firmava il contratto coi 5stelle e indicava il premier gialloverde, Matteo Salvini svelava il suo retropensiero a Giorgia Meloni e Licia Ronzulli: «Il governo Conte parte? Vi dico: 50 e 50. O mi danno Interno, Economia e sottosegretario a Palazzo Chigi con i nomi che faccio io oppure rompo». Un’ora dopo confidava a un amico: «È fatta. Non vedo l’ora di iniziare. Abbiamo già tre leggi nel cassetto». Sabato scorso a Milano, in una riunione a Via Bellerio, nuovo ripensamento: «Mettiamo Giorgetti al posto Savona? Per carità, sarebbe perfetto, ci conviene pure. Ma non è giusto. Se subisco un’imposizione all’inizio cominciamo male. Non partiamo liberi e non cambiamo niente».
Infine l’ultima verità consegnata a Sergio Mattarella domenica pomeriggio. Verbalizzata per filo e per segno dal consigliere Daniele Cabras: «Giorgetti ministro? Guardi presidente, ci sono due problemi. Un po’ non se la sente lui, troppo impegnativo il ruolo. E un po’ abbiamo costruito un castello di carte. Se ne togli una viene giù tutto. Quindi la mia risposta è no». Omissis sulla replica del presidente della Repubblica.
Il grande inganno si nutre di una buona serie di bugie, di bluff, di mosse e contromosse, da ricostruire attraverso i mille dettagli disseminati come le briciole di Hansel e Gretel sulla via di casa. La casa di Salvini è sempre stata la campagna elettorale, il voto subito, fare il pieno al più presto, gonfiare ancora il consenso leghista e giocarla da padrone in Italia e in Europa. Eppoi c’era il trucco sull’euro. L’uscita mascherata da tanti falsi indizi per non agitare gli elettori del Nord, le imprese, la base produttiva del Carroccio. Il fatto che Paolo Savona non ne avesse fatto cenno nella sua lettera di domenica, nè in un senso nè in un altro, voleva dire una sola cosa: la Lega si preparava a mollare la moneta unica con un blitz. Il sogno di una notte, come ha scritto l’economista Alberto Bagnai nei suoi libri. La sera sei dentro, la mattina sei fuori. Si fa ma non si dice. E vediamo come reagisce l’Europa.
Il verbale del Colle smentisce le parole di Di Maio in difficoltà: «C’erano altre ipotesi, Bagnai o Siri». Ma se era un castello di carte quei nomi non sono mai esistiti. Esiste invece l’inganno che ha travolto anche i 5stelle. «Ci siamo resi conto che ci ha fregato», spiegava ieri Vincenzo Spadafora, il braccio destro di Di Maio. Giorgia Meloni aveva capito qualcosa un po’ prima. «Secondo me sta aspettando che Mattarella metta un paletto che fa saltare tutto», aveva raccontato ai colleghi di partito dopo lo strano colloquio sul 50 e 50. Savona è stata la zeppa.
Difficile da afferrare, insondabile negli umori e nelle prospettive. In questi lunghi mesi, al Quirinale sono arrivati persino ad apprezzarne le qualità camaleontiche: ragionevole nella stanza presidenziale, populista nelle conferenze stampa fuori dallo studio alla Vetrata. Forse pensavano che avrebbe prevalso il primo Salvini, poi si è capito che il secondo, mix di calcolo e istinto, non perdona e procede a mo’ di ruspa.
Il Salvini doppio non poteva essere una garanzia per la sopravvivenza dell’euro. Nella prima bozza del contratto, pubblicata da Huffington post, era scritto chiaramente che il governo avrebbe introdotto delle procedure per abbandondare la moneta unica. Just in case. «Se metti la ruota di scorta non vuol dire che speri di forare», sintetizza Claudio Borghi, il consigliere economico della Lega. «I 5stelle però non volevano questa clausola e l’abbiamo tolta.
Non pensavamo a un blitz, non ne abbiamo mai parlato, neanche sabato a Milano. Non volevamo fregare nessuno, ma tutti sanno che per me un piano B è necessario…». Basta con «la religione dell’euro, con la teocrazia della moneta unica – dice ancora Borghi, svincolato dalla consegna del silenzio – .
Basta col ricatto che se facciamo qualcosa che non piace a Berlino finiamo in bancarotta. Uscire in modo ordinato dev’essere una possibilità». I mini-bot erano un tassello del puzzle. «Ma servono in ogni caso, sia dentro che fuori».
Anche adesso il leader leghista gioca su due tavoli. Sta spaventando persino Silvio Berlusconi, che non è più tanto sicuro di salvare il centrodestra, e finirà per votare “no” a Cottarelli.
Perché dicono che Salvini stia continuando a manovrare e a sognare una vittoria piena, quella del “partiamo liberi”. Vorrebbe cambiare la legge elettorale nei due mesi che mancano ad agosto.
La soglia del 40 per cento per il premio di maggioranza alla coalizione lo condurrebbe di nuovo all’abbraccio con i grillini.
La legge attuale invece lo farebbe tornare all’ovile dell’intesa con Forza Italia e Fratelli d’Italia.
Tutto è in movimento. Come il Capitano (nickname coniato da Luca Morisi, il giovane che cura i social) il quale salta da una piazza alla diretta Facebook, da Milano a Roma, da Barbara D’Urso a Giletti, da Putin alla Le Pen. Una scheggia impazzita solo in apparenza. Ora il suo piano è più chiaro e più complicato da nascondere: rottura con l’Unione, alleanza con la Russia e i populisti europei. Alle urne si va senza inganno.
La Repubblica.
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