La giostra dei morti viventi

In una notte del gennaio 1091 illuminata dall’Ottava luna Gualchelino, un sacerdote del villaggio di Bonneval, in Normandia, mentre tornava a casa dopo aver visitato un malato sentì il frastuono di un grande esercito: spaventato, si nascose dietro quattro nespoli, ma un gigante armato di clava lo fermò e assistette con lui alla sfilata di una massa di persone, con animali e bagagli, fra le quali Gualchelino riconobbe alcuni conoscenti morti da poco. Li seguiva una torma di becchini, cui il gigante si unì, e una fila di bare, sulle quali sedevano nani macrocefali e un demone che torturava un assassino legato a un tronco portato da due Etiopi. Dietro di loro uno stuolo di donne anch’esse orribilmente straziate e altrettanto familiari all’osservatore della scena, e quindi una schiera di chierici e monaci, compresi alcuni ritenuti santi, evidentemente condannati per peccati noti solo a Dio. Chiudeva il corteo un plotone di cavalieri armati, colpevoli di malversazioni e morti recentemente. Gualchelino pensò che stava passando la «famiglia di Arlecchino», familia Herlechini: l’esercito dei morti viventi che impazzava per i cieli e le terre in attesa di una pacificazione. Si impossessa di uno dei cavalli liberi, dialoga e litiga con alcuni cavalieri, che gli affidano messaggi per i vivi, e lottando con uno di loro sente il corpo bruciare. Poi viene liberato dall’arrivo di un misterioso soccorritore, che si rivela essere suo fratello, e finalmente ritorna fra i vivi: il cronista Orderico Vitale riporterà la sua testimonianza nella Historia ecclesiasica gentis Anglorum.

Un’impressionante caccia selvaggia
Di questa storia dai mille volti ha seguito le tracce per decenni il medievista Massimo Oldoni, unico fra i maestri italiani della letteratura mediolatina ad aver dedicato il proprio carisma ai meccanismi dell’oralità e all’antropologia del mondo espressivo che oggi chiamiamo «fantastico». Oldoni aveva promesso fin dagli anni novanta di raccogliere le testimonianze sulle masnade di morti viventi e ora giunge alla meta con La famiglia di Arlecchino Il demonio prima della maschera (Donzelli editore «Saggi», con riproduzione di tutte le fonti latine, pp. XI-330, euro 35,00), che chiude i conti con questa antica ossessione, nata da un incontro giovanile, nei corridoi della Sapienza, con un professore che a bruciapelo gli aveva chiesto: «E i biotanati?». Scoprì allora che con questo termine si intendono le forme visibili di coloro che sono stati ammazzati (bia-thanatos, «morte per violenza»), finendo di vivere prima del tempo: fantasmi carnali che spesso si aggregano in bande di vandali, balordi e violenti che imperversano sulla terra distruggendo e saccheggiando in una impressionante «caccia selvaggia» oppure in cielo, scontrandosi fra le nubi con altre schiere, come quelli visti, secondo Plinio il Vecchio, dagli abitanti di Amelia e Todi durante il terzo consolato di Mario: la credenza antica, testimoniata anche dal filosofo Porfirio, pensava infatti che l’anima di questi morti precoci rimanesse nel corpo.
Oldoni ricorre così alla sua lunga esperienza non solo di ricerca ma anche di scrittura come poeta e narratore (fra i suoi titoli più fortunati Il matematico di Arles, Avagliano 2014) per mettersi sulle tracce di questa leggenda, che dà veste narrativa alle inquietudini sul confine fra il mondo dei vivi e quello dei defunti privi di sepoltura e di pace. Esplora in decine di sermoni, agiografie, poemi, cronache ed enciclopedie di ogni parte dell’Europa medievale il profilo storico dei personaggi coinvolti, le virtù magiche del nespolo, la mitologia dei Giganti, le attestazioni dei passaggi di schiere infuocate, le testimonianze sul linguaggio in cui parlano gli esseri dell’altro mondo, il valore profetico delle loro comunicazioni, gli incontri fra vivi e morti, le descrizioni dei demoni, dando così respiro e spessore a ognuno dei singoli elementi della narrazione di Orderico e trasformando la ricognizione su questa leggenda in una riflessione sul rapporto fra l’individuo e l’alieno, su umano e metaumano, perfino sul corpo astrale, cioè sui «livelli alternativi di presenza» che hanno sempre affascinato le comunità umane. Ne cataloga il vasto campionario narratologico, incluse le prove di veridicità e i messaggi ai viventi, che si risolvono spesso in raccomandazioni a penitenze, preghiere o elemosine, e in generale in una sorta di memento sulla necessità di adeguare i comportamenti nella vita terrena al timore di castighi in quella ultraterrena. Ma se la ragione sociale, banalmente ecclesiastica, del meccanismo è fin troppo trasparente, ben più sfumati e inquietanti sono il rapporto fra il sostrato antropologico e la sua interpretazione narrativa, prima orale poi scritta, prima popolare poi colta, con l’esplorazione delle presenze misteriose operanti nel quotidiano e dell’«emotività di massa» che suscitano in chi le incrocia.
Nella seconda parte del libro il focus si stringe sulla Famiglia di Arlecchino, partendo dalla celebre storia del re bretone Herla (Herla King, poi metamorfizzato in Herlequin e tutte le sue varietà) raccontata nelle Nugae curialium da Walter Map, uno dei grandi scrittori che nel XII secolo operarono il trasferimento del materiale folklorico orale (di origine gallese, nel suo caso) in testi latini a diffusione potenzialmente infinita: il primo narratore di storie di streghe e di «fate», di vampiri e di elfi, che con Gervasio di Tilbury e il Goffredo di Monmouth creatore del mito arturiano, gettava in quegli anni le basi del «fantastico» che ancora oggi popola le nostre serie televisive e i nostri cartoni animati. Walter racconta che re Herla, dopo aver accettato al proprio matrimonio i doni sontuosi di un re dei Pigmei, è costretto ad andare alle nozze di quello, l’anno dopo, entrando in una caverna che lo conduce a un magnifico palazzo sotterraneo e ricevendone altri regali, fra cui un cagnolino vincolato a lui da un patto magico: Herla non sarebbe potuto scendere da cavallo prima che lo avesse fatto la bestiola. Ma quando esce dalla caverna in superficie scopre, dialogando con un passante che non capisce la sua lingua, che sono trascorsi duecento anni, che il regno è stato conquistato dai Sassoni e soprattutto che, siccome il cane non si muoveva, lui e il suo esercito erano condannati a vagare a cavallo fino a quando, ai tempi di Enrico II Plantageneto (al cui caminetto, la sera, Walter raccontava queste storie), l’armata decise di inabissarsi nelle acque del fiume Wye a Hereford. Questa morte rinviata, che Oldoni compara con la Morte a credito immaginata da Céline, fa di Herla e del suo séguito un corteo di morti viventi. Il tocco magistrale dell’ironia di Walter Map è il paragone fra quell’esercito di persone che gira senza un senso e senza una meta sapendo di non aver più vita e i frequentatori della corte plantageneta nell’Inghilterra dei suoi giorni, anime perse in attesa del permesso di morire.

Cesario di Heisterbach
Oldoni segue le tracce di questa masnada sofferente e grottesca nel Dialogus di Cesario di Heisterbach (1180-1240) e le sue trasformazioni nel re dell’Inferno (Höllenkönig) dell’Edda e nell’Artù della Vulgata Merlin che, come nel mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto, cavalca un Cath Palug, un mostruoso gatto (lince) di palude nato da una scrofa e gettato da cucciolo in un lago. Le vorticose metamorfosi di questa funzione-Arlecchino, attraversando la Totentanz del basso Medioevo centro-europeo approdano, dopo un lungo percorso di trasformazione del personaggio, nella figura buffonesca di cui parla il servo Croquesots nel dramma satirico Jeu de la feuilléee di Adam de la Halle (1276), poi migrata definitivamente in maschera con la commedia dell’Arte italiana: è possibile, congettura Oldoni, che perfino Dante abbia visto lo spettacolo a Parigi e ne sia rimasto influenzato per la creazione del suo Alichino, uno dei diavoli di Malebranche nel Canto XXI dell’Inferno.
La girandola caleidoscopica di racconti, personaggi, opere, epoche, lingue, territori, ognuno dei quali ne genera altri in spirali escheriane che non si ricongiungono mai al punto di partenza, trova corrispondenza adeguata nel vorticoso meccanismo espositivo del saggio di Oldoni, che ci coinvolge nel «più grande spettacolo del Medioevo, la danza della morte che celebra la vita», concludendo col ricordo del costume di un Arlecchino che il biologo marino Rodrigo Delgado vide danzare il 25 aprile 2020 sulle acque dell’Atlantico: reliquia del naufragio di una nave cargo che trasportava i materiali di scena di un Arlecchino servitore di due padroni andato in tournée negli Stati Uniti. Ma l’anima antica e infernale non è scomparsa col costume e continua a cavalcare nel cielo di Ghost Riders in the Sky, come narra la canzone popolare di Stanley Jones.

 

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