di Chiara Valerio
Per ricordarsi che danza e geometria sono una la forma dell’altra basta pensare, per restare in Occidente, alle metope dei templi greci o ai nastri delle colonne celebrative romane, sui quali figure umane, divine e semidivine, si rincorrono in una sequenza di movimenti di pietra, raccontando una storia e fissando proporzioni matematiche.
Per ricordarsi che danza e linguaggio sono uno la forma dell’altro basta pensare ai geroglifici, esseri umani e animali, ancora privi dell’idea di prospettiva, fissati in posizioni che raccontano, rappresentano e stabiliscono una successione temporale, un prima e un dopo. Si era soliti dire, fino alla soglia dell’Ottocento, e si può pensarlo anche ora, che la geometria fosse la disciplina dello spazio come l’aritmetica quella del tempo. I corpi in movimento, danzanti, sono la disciplina dello spazio e del tempo: lo occupano, ne seguono o ne indicano l’evoluzione.
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento è Rudolf Laban, coreografo e danzatore ungherese, che stabilisce un legame fortissimo tra danza e geometria e ne trae un metodo. Scompone e ricompone i movimenti del corpo su quattro assi principali, rappresentabili anche come gli amichevoli assi cartesiani che si imparano a scuola, e che sono: corpo, spazio, tempo e forma. Più che a Cartesio però, Laban pensava a Platone.
In Alexander. Cronache di guerra di Alessandro il Grande,
anime tv giapponese di fine anni Novanta, ispirato alla vita di Alessandro Magno, il giovane condottiero ha un maestro, Aristotele, e fa un incontro importante, Platone, il quale gli fa intendere che raccogliere tutti i solidi (cosiddetti platonici) gli indicherà una strada per accordarsi all’ordine dell’universo, e gli garantirà in esso una posizione.
Alexander nuota in una piscina che ha la forma del Mediterraneo e avanza in battaglia con la grazia di un danzatore. Le figure del cartone animato somigliano tutte a ballerini, lunghi e leggeri, parlandosi creano figurazioni, muovendosi disegnano linee diagonali, linee ortogonali e sfidano la gravità.
Le costellazioni, trascrizioni nel Cielo di inseguimenti e fughe, figurazioni di scontri e incontri hanno rappresentato e rappresentano una indicazione per naviganti e viandanti, e, nonostante la concretezza vitale vada ormai verso l’astrazione non più solo matematica ma digitale, da quelle danze celesti ci facciamo ancora guidare. A quelle danze, rivolgiamo i desideri. Se non fosse morta Carla Fracci, definita il 12 luglio 1981 dal New York Times “prima ballerina assoluta”, una donna che ha danzato in un arco di tempo e partner che va da Rudolf Nureyev a Roberto Bolle, passando per Baryshnikov e Vasiliev, tuttavia io di figure, geometrie, linguaggio e movimento dei corpi, vivi o stellari, che prima degli orologi hanno misurato tempo e spazio, incarnando aritmetica e geometria, non mi sarei ricordata.
Anni fa, in una intervista televisiva, ho ascoltato Carla Fracci dire una cosa che non ho più dimenticato. Una specie di monito che esulava dalla danza e rientrava nel quotidiano — ammesso poi che danza e vita quotidiana, in quanto rito e disciplina, singoli e collettivi, non siano invece del tutto sovrapponibili, non siano una la forma dell’altra. Carla Fracci diceva, composta: «Quando pensate alla leggerezza dei ballerini, poi guardategli i piedi». Così oggi che è morta penso ai suoi piedi nodosi. Penso ai piedi dei ballerini e delle ballerine che sono i loro Dorian Gray: mantengono la memoria di tutti gli esercizi, tutti gli sforzi, tutto il peso, tutta la gravità in senso fisico e lato delle ripetizioni, dell’equilibrio, dei salti, dello sforzo di fissare la vita, che è movimento, in una forma geometrica eterna ed eternamente riconoscibile. E penso che tutti dovremmo avere nel corpo un luogo oscuro e nodoso, nascosto, deformato dall’esercizio e dall’equilibro, che ci garantisca, almeno per un attimo, la leggerezza, il salto, o la loro apparenza.