Regole e rischi
di Dario Di Vico
Conosciamo ancora troppo poco delle trasformazioni che l’ampio ricorso allo smart working ha determinato a monte nel funzionamento delle organizzazioni e a valle nella professionalità dei lavoratori. Ci vorrà forse una ricerca ad hoc che, mescolando un campione di casi presi dalle imprese private, dalla pubblica amministrazione e dal terzo settore, ci restituisca un quadro più definito e meno influenzato dalle prime sensazioni.
N el l’attesa l’errore da evitare è quello di legiferare a casaccio, magari con il solo scopo di costruire un’identità finto-agile per il proprio partito e per rafforzare la presa su alcuni segmenti dell’elettorato. È quanto però sta avvenendo nella giostra degli emendamenti al dl Rilancio: l’ultimo presentato da un folto gruppo di deputati Cinque Stelle, prima firmataria Vittoria Baldino, riformulato e approvato in sede di commissione Bilancio, rende di fatto obbligatorio per la pubblica amministrazione prevedere il 50% di smart working fino a dicembre 2020 e successivamente innalza la quota addirittura al 60%. Per il ministro Fabiana Dadone si tratta «di una rivoluzione» ma di fatto la politica «mangia» una novità maturata nella società, la fa propria e la restituisce come obbligo rigido senza aver verificato nel frattempo che tipo di trasformazioni abbia indotto.
Il lavoro agile nasce nella legge del 2017 come uno strumento di flessibilità buona, tende a conciliare le esigenze delle organizzazioni con quelle delle persone e sin dall’inizio rimanda alla contrattazione tra le parti le modalità di attuazione, a cominciare ovviamente dalla quota di lavoratori coinvolti contemporaneamente. Ed è questa la filosofia che andrebbe preservata anche nella nuova fase che si apre, quella che dovrebbe portare a regime un’innovazione esplosa in condizioni di emergenza sanitaria. Solo infatti in sede aziendale, si tratti di un determinato ufficio pubblico o di un’unità produttiva privata, si possono cogliere le opportunità del nuovo strumento e farle diventare un processo a somma positiva. Uno scambio tra maggiore produttività e responsabilizzazione/libertà del dipendente nella gestione del tempo e degli spazi della sua prestazione.
Destrutturare le organizzazioni in maniera rigida e con l’autorità di una legge non conviene a nessuno, tantomeno alla già non efficientissima pubblica amministrazione made in Italy. Come ha messo in rilievo nei giorni scorsi al Festival dell’Economia di Trento il professor Enrico Moretti, docente a Berkeley e studioso di geografia del lavoro, «nel lungo termine sparpagliare la manodopera non dà un contributo di creatività» e di conseguenza «l’agglomerazione» resta un potente strumento di incremento della qualità. E per come sono fatti sia la pubblica amministrazione sia il sistema produttivo italiano non si può rinunciare a questa creazione di valore in cambio di risparmi sui costi, peraltro limitati. È giusto, dunque, ragionare sulle prospettive inedite che ci apre il lavoro da remoto (persino il southworking , «lavorare da Palermo con il costo della vita di quella città e con gli stipendi di Milano» come ha chiosato Moretti) ma occorre restare con i piedi per terra e ricordare che la sfida che ci attende è innanzitutto quella della produttività. Diamo tempo quindi all’organizzazione del lavoro di digerire la novità e di trovare la strada più conveniente e inclusiva insieme. Avverte, infatti, lo stesso economista di Berkeley: «I progetti che sono realizzati oggi in smart working erano stati disegnati prima, con il lavoro di gruppo. Quando dovremo disegnare quelli di domani, e fossimo costretti a farlo in remoto, non potremo scommettere sullo stesso esito qualitativo».