Contraddizioni e aspetti critici, passi in avanti, ma anche tanta incertezza, molti timori e il ritratto di un Paese in cui il futuro stenta a delinearsi, sembra difficile persino da immaginare, “è rimasto incollato al presente”. Il Rapporto Censis 2017 ha fotografato ancora una volta il nostro Paese e, certo, alcuni dati positivi ci sono.
La ripresa è un fatto, e l’industria è un settore trainante; la produzione industriale in Italia nel primo semestre del 2017 è aumentata del 2,3%, un dato superiore a quello dei principali Paesi europei (della Germania, della Spagna e della Francia, per esempio), che cresce al 4,1% nel terzo trimestre dell’anno. Crescono le esportazioni e le aziende esportatrici, primeggiano il comparto moda, i prodotti tipici del settore alimentare, il design nell’arredo, le macchine utensili. L’Italia è meta turistica sempre più ambita sia per il turismo domestico sia per quello straniero, e crescono i consumi, compresi i consumi culturali, che negli ultimi dieci anni hanno registrato complessivamente un aumento del 12% tra il 2006 e il 2017.
Eppure complessivamente sono ancora molte, troppe le fragilità: i benefici della ripresa non si sono distribuiti in modo tale da rassicurare e sostenere il Paese, la mobilità sociale sembra funzionare solo verso il basso e non più in ascesa, il ceto medio è quello più in sofferenza e le paure generate dall’incertezza si traducono in diffidenza e risentimento, anzi nel Rapporto Censis il termine usato è addirittura ‘rancore’.
Tra i moltissimi dati a disposizione, analizzabili e collegabili in diversi modi e da diversi punti di vista, alcuni colpiscono in modo particolare e rimandano, seppure da aree apparentemente distanti, la medesima immagine di un Paese ancora ripiegato, disorientato, in cui l’immaginario collettivo ha perso la sua forza propulsiva e manca “una agenda sociale condivisa”.
Innanzitutto ferisce l’aumento della povertà assoluta: gli italiani a trovarsi in questa condizione sono il 4,7%, con un aumento del 165% rispetto a 10 anni fa: si tratta di oltre 1,6 milioni di famiglie, un dato tristemente elevato per un Paese sviluppato e che sembra giustificare il diffuso timore (soprattutto tra i Millennials) di scivolare in basso, a cui si accompagna la sensazione altrettanto diffusa che sia difficilissimo risalire la scala sociale. Soprattutto i più giovani sembrano vedersi con un ‘destino segnato’ e con poche possibilità di cambiare il proprio futuro. E per questo non investono per ottenere competenze e qualifiche superiori: solo il 26,2% della popolazione italiana tra i 30 e i 34 anni è in possesso di una laurea: siamo penultimi in Europa, prima solo della Romania (25,6%) ma molto lontani da Gran Bretagna (48,2%), Francia (43,6%), Spagna (40,1%) e Germania (33,2%). Del resto se la laurea è poco attraente è anche perché il mercato del lavoro sembra non essere in grado di assorbire i laureati, e gli stipendi di chi possiede un diploma di educazione terziaria sono qui più bassi che altrove (1.344 euro in Italia, in media, a cinque anni dalla laurea, 2.202 all’estero).
A chiudere il cerchio la sfiducia nei partiti politici (84%) e nel governo (78%), mentre anche la pubblica amministrazione e i sindacati non se la passano troppo bene: difficile dunque intravedere il cambiamento se manca la fiducia nelle persone delegate a praticarlo.