Quindici, ma che dico quindici, dieci o anche solo cinque anni fa Nanni Moretti non avrebbe disertato la conferenza stampa di un suo film, anche solo per il gusto di rispondere per le rime alle solite domande dei giornalisti.
Quindici, ma che dico quindici, dieci o anche solo cinque anni fa Nanni Moretti non avrebbe commesso falli di frustrazione postando messaggi velenosi su un film suo concorrente premiato con la Palma d’oro al festival di Cannes (lo avrebbe fatto magari senza clamori, per questioni più domestiche, come quando polemizzò con la candidatura italiana all’Oscar straniero del film postumo di Caligari).
Quindici, ma che dico quindici, dieci o anche solo cinque anni fa Nanni Moretti non avrebbe fatto un trailer personale in cui si decantano “dieci minuti di applausi” ricevuti a Cannes, né avrebbe risposto, vincendo le proverbiali idiosincrasie, a tutte le comparsate televisive utili a promuoverlo.
Quindici, ma che dico quindici, dieci o anche solo cinque anni fa Nanni Moretti non si sarebbe adagiato su un soggetto altrui, in particolare sul romanzo di uno scrittore israeliano che trasferito da Tel Aviv in riva al Tevere era impossibile potesse conservare il sapore metaforico convivenza-vicinanza-conflitto-diffidenza caratteristico della condizione mediorientale.
Quindici, ma che dico quindici, dieci o anche solo cinque anni fa Nanni Moretti non avrebbe messo insieme in uno stesso palazzo un simile gruppo di personaggi dove trovarne uno normale è impresa ardua: una neomamma che vede corvi in camera da letto (l’Alba Rohrwacher che ruolo dopo ruolo ormai solo a immaginarla ti fa venire l’ansia); un marito e neo padre lontano (Adriano Giannini) che però quando torna sembra più preoccupato di litigare col fratello che di accudire la moglie; un anziano inquilino ben contento di stare coi bambini (Paolo Graziosi) al quale improvvisamente non si capisce perché viene in mente di uscire e perdersi nel parco con la piccola affidatagli dai vicini; una bambina che si fa parcheggiare volentieri in casa altrui nonostante definisca “guasto” l’anziano vicino con cui pure si diverte a giocare; un padre talmente ossessionato dal dubbio che la propria figlioletta possa aver subito qualche forma di violenza che non si capisce come faccia vivere e lavorare per il prosieguo del film; la disinvolta nipote minorenne dell’anziana coppia rientrata a Roma che ignara dell’accaduto pensa bene di sedurre uno Scamarcio visibilmente provato, salvo poi, indotta forse dalla nonna furibonda per i sospetti sul marito nel frattempo morto, accusarlo di stupro; un giovane in conflitto tutt’altro che sordo col padre che non contento di aver ucciso ubriaco una donna, si fa anche arrestare per rissa senza dare il minimo segno di pentimento; un magistrato incattivito (Nanni Moretti) che di aggiustare i processi casalinghi non ha alcuna voglia e in veste di pubblico ministero caccia per sempre il figlio di casa; una madre come Margherita Buy munita dei soliti occhi naufraghi cui non resta che accettare (di cattivo grado) la situazione, complice forse anche un precedente lutto familiare.
Tutti dentro lo stesso palazzone, senza che ci sia tempo e modo di spiegare perché pensino e agiscano in tal modo. Ma non è tutto, perché poi ci sono anche le appendici esterne: un cognato della Rohrwacher versione Madoff dei Parioli (Stefano Dionisi) con un debole per le truffe ma anche per nipotina e cognata, le cui sorti son destinate a perdersi per strada; il truffato di turno che piomba in casa della povera cognata per reclamare i soldi persi come se lei non avesse già le sue gatte da pelare; e soprattutto il volontario dell’assistenza stile Caritas, entrato alla fine in scena grazie alla Buy, perché è proprio a lui che la Buy, dopo la morte del marito, va a consegnare una valigia di scarpe destinate ai migranti bisognosi. Uno che guarda caso è anche il padre della ragazza da cui – incredibile amici – il figlio transfuga (diventato nel frattempo apicultore assediato dai rimorsi) ha avuto una figlia con cui vive ora fuori città. Mica glielo dice subito, però. Riesce non si come a farla salire con lui in macchina e a rivelarglielo solo in aperta campagna, prima di arrivare a destinazione, lasciandola praticamente senza alternative…
Quindici, ma che dico quindici, dieci o anche solo cinque anni fa Nanni Moretti si sarebbe rifiutato di congegnare sequenze involontariamente comiche come quella del cinema, quando improvvisamente nel buio della sala, Scamarcio chiede alla moglie cosa abbia (!) e lei (lei a lui) gli comunica di star male perché la nipote del presunto pedofilo è ricorsa in appello.
Più brutalmente ancora: quindici, ma che dico quindici, dieci o anche solo cinque anni fa Nanni Moretti non avrebbe fatto un film così poco morettiano come Tre piani, pieno zeppo di fatti e desolatamente vuoto di emozioni. Perché se è vero, come sosteneva René Daumal, che lo stile è l’impronta di ciò che si è su ciò che si fa, stavolta lo ‘stile’ Moretti, spesso così invadente e corrosivo, si fa proprio fatica a rintracciarlo. E non è questione di regia, visto che per esempio lo stesso Caos Calmo, diretto da Antonello Grimaldi, risultava assai più morettiano di questa torta a tre piani, di questo missile a tre stadi (di cinque anni in cinque anni per tre) il cui risultato ricorda molto quello del Vanguard americano, che nel 1967 si alzò di una decina di centimetri per esplodere poi sulla rampa di lancio.
Tre, come le morti che salgono nel cinema di Moretti: dopo il figlio, dopo la madre, ora è toccato proprio a lui, che si guarda bene, dall’al di là, dal rispondere a una Buy vedova modello Le fate ignoranti di Ozpetek convinto di poterci parlare tramite una semplice, vecchia segreteria telefonica, una di quelle che quindici anni fa erano già fuori combattimento…