Da molti è stata considerata una grande scrittrice, da altri semplicemente un’autrice in carriera solo per meriti politici. Christa Wolf, morta l’1 dicembre di dieci anni fa all’età di 82 anni, oltre che per qualche sua opera d’un certo valore, verrà ricordata anche come uno di quegli intellettuali della defunta DDR, la Germania orientale comunista, ad aver provato “un certo sollievo” quando nel 1961, con il Muro berlinese, vennero “chiusi i confini” della DDR. Fu lei del resto il 4 novembre 1989, quando aveva ancora in tasca la tessera della SED, il partito comunista tedesco orientale, a tenere un discorso in Alexanderplatz a difesa di quel regime, causa della sua fortuna. Né lei, né gli scrittori suoi compagni, ricordava lei stessa un paio d’anni prima di morire, riuscirono a figurarsi allora “che di lì a cinque giorni il Muro sarebbe crollato”, tanto più che la maggior parte di loro “non se lo augurava neppure”.

Editore italiano della Wolf è stato fin dall’inizio il romano Edizioni e/o, che certo deve molto della propria fortuna alla scrittrice tedesca, in particolare grazie a Il cielo diviso (1975), pubblicato nella DDR appena due anni dopo la costruzione del muro di Berlino, e Cassandra (1983). Tra gli altri suoi titoli, se non per la qualità certo per la testimonianza, va ricordato Un giorno all’anno. 1960-2000 (Edizioni e/o, 2006), un diario all’interno del quale risulta nominata buona parte degli scrittori tedesco-orientali. Significativo il fatto che una personalità come la sua, certo non marginale nel sistema comunista, si sia “dimenticata” di citare alcune scrittrici sue connazionali note per non essere state in linea con i diktat della SED, il partito comunista. Tanto per ricordarne alcune: Susanne Kerkhoff, che venne ridotta al silenzio e alla “morte sociale”, finché non fu “costretta” a scegliere il suicidio; Eveline Kuffel, che sottoposta al controllo da parte della Stasi non ebbe mai la possibilità di pubblicare; Jutta Petzold, che dopo la fuga all’Ovest di alcuni suoi amici fu costretta a frequentare con una certa assiduità la clinica psichiatrica della Charitè, a Berlino Est; infine Hannelore Becker, che dopo aver tentato di abbandonare i servizi segreti nel 1974, di cui era stata convinta collaboratrice, tentò la strada di una vita normale, da commessa, riuscendo a resistere però solo un paio d’anni, finché anche lei non “scelse” il suicidio. Circa i rapporti tra la Wolf e il regime DDR va ricordata l’accusa che le venne mossa nel 1993 di essere stata tra il 1959 e il 1962 un’informatrice inufficiale della Stasi, i servizi segreti, col nome di “Margarete”. Eppure a Torino, nel 1997, l’università le attribuì la laurea ad honorem: “Si può laureare ad honorem una ex spia?” si chiese Paolo Conti sul “Corriere della Sera” del 27 maggio. Intervenne allora anche Viktor Zaslavskj, espulso dall’URSS nel 1974: “Mi sembra un appoggio indiretto ai sistemi di tipo sovietico, da straniero mi chiedo se il riconoscimento vada solo al talento o abbia collegamenti con lo scandalo della Stasi”. Memorabile l’ironia di Saverio Vertone:

“Non mi pronuncio sui trascorsi della Wolf. Villon frequentò la malavita e fu un grande scrittore. Parliamo di una scrittrice da strapazzo, della Liala della sinistra. Tutta colpa della pochezza delle nostre università allagate dalla lacrimosità socialista”.

Sul tema è tornata lei stessa nel 2009 con un’intervista al canale 3sat, negando la volontarietà di quella collaborazione: “Non ne sapevo nulla, mi hanno usato senza che lo sapessi. Io non firmai alcuna dichiarazione d’impegno”. Ma in quell’intervista la storia dell’attività di delazione ha finito con l’essere marginale rispetto alle “sentenze” emesse dalla scrittrice sui suoi ex-concittadini. All’affermazione della Wolf per cui a muovere i rivoltosi sia stato solo il desiderio di “vivere subito meglio”, l’intervistatore chiese se non vi fosse anche il desiderio di “vivere più liberi”. Risposta stizzita: “In ogni caso questo non è stato certo il motivo principale della rivolta”. Pur ammettendo che il divieto di viaggiare oltre cortina fosse “una decisiva limitazione alla libertà degli uomini normali”, alla domanda sul valore della libertà d’opinione la Wolf svelava infine tutto il proprio odio verso il suo popolo, reo in quel novembre del 1989 di non aver seguito il volere di intellettuali come lei:

“La libertà di parola, la libertà di pensiero…per la maggior parte delle persone non è così importante. Caso mai sono essenziali per gli intellettuali. […] siamo noi, gli intellettuali, ad aver risentito ovviamente molto di più della limitazione della libertà d’opinione”.

Dopo quattordici anni di silenzio letterario la Wolf era appena tornata nelle librerie anche in Italia con La città degli angeli (edizioni e/o 2011, p. 400, € 19,50). Il romanzo autobiografico racconta il suo soggiorno a Los Angeles, tra il 1992 e il 1993, ospite del Getty-Center. Con l’orgoglio e la strafottenza di chi, da convinta leninista, aveva servito dall’inizio e fino in fondo il regime di Ulbricht e Honecker, la Wolf arrivò negli USA pretendendo di entrare con il passaporto blu della DDR, dunque da cittadina di uno Stato che non esisteva più. “Un gesto di sfida”, lo definisce lei stessa nel libro. Qualche critico, oggi, l’ha definito piuttosto uno “scherzetto macabro”. Di certo l’ennesima prova dei privilegi goduti a lungo dalla Wolf, se è vero che agli altri, pochi, autorizzati a viaggiare, una volta rientrati, le autorità di Berlino Est chiedevano l’immediata restituzione del passaporto.

All’interno del libro abbondano quadri di vita quotidiana americana e non manca neppure la confessione di una certa soggezione al potere della televisione: “Tutte le sere mi sedevo davanti alla tv per vedere Star Trek […] era il mio bisogno di fiabe, di un lieto fine”. E la si può capire, almeno lì la “riunificazione” falliva: Vulcano non veniva occupato da Romulus. A dimostrazione di quanto la vicenda l’abbia provata, la Wolf prova anche qui a fare i conti con la tempesta mediatica che la investì nella Germania riunificata proprio nel corso di quel suo breve soggiorno americano: l’accusa di essere stata un “IM”, un’informatrice inufficiale della Stasi. A rendere noti allora quei documenti fu Joachim Gauck, il pastore evangelico ex cittadino DDR tra i protagonisti della rivoluzione pacifica dell’89, allora responsabile dell’autorità deputata all’elaborazione dei documenti della Stasi e il 30 giugno 2010 candidato alla presidenza della Repubblica tedesca con il sostegno di socialdemocratici e verdi. Presa da forte depressione, la Wolf provò a difendersi da Santa Monica scrivendo a Gauck per accusarlo “di aver contribuito con la consegna di quei documenti alla stampa alla distruzione della sua reputazione”. “L’autorità di cui sono responsabile”, fu la risposta di Gauck, “nel processo d’elaborazione degli atti della Stasi ha il dovere di garantire ai media la presa visione dei documenti, anche quando il livello delle relazioni risulta molto diversificato e perfino unilaterale e distorto”. L’esito di quest’incrocio di destini ha fatto sì che la Wolf nel 2010 si sia rifiutata di prendere posizione sulla candidatura di Gauck, che pure era il candidato della sinistra alla presidenza della Repubblica.