La fede e l’eros i volti del ‘500.

Si potrebbe cominciare con una piccola eresia: partire non dalla prima sala, ma dalla seconda, dove «esplodono» in una meraviglia visiva, diremmo muscolare , tre capisaldi della storia dell’arte: la Deposizione dalla croce di Volterra del Rosso Fiorentino (1521), la Deposizione di Santa Felicita del Pontormo (1525-1528) e il Cristo deposto di Besançon del Bronzino (1543-1545 circa). Perché è in questo trittico ideale che si consuma quella tensione dialettica tra vecchio e nuovo nel secondo Cinquecento. E si vede in controluce quello che sarà lo spirito multiforme dell’arte della Controriforma.

Partiamo da qui, per raccontare il percorso immaginato da Antonio Natali e Carlo Falciani per la mostra Il Cinquecento a Firenze. Tra Michelangelo, Pontormo e Giambologna , nuova produzione della ricca stagione di Palazzo Strozzi targata Arturo Galansino. Sulla sinistra, ecco il coraggio di Rosso Fiorentino, allergico al conformismo di un’arte che, negli anni Venti del Cinquecento si andava «aggiornando» e addolcendo. Rosso resta sulla sua visione arcaizzante: i colori, la teatralità delle pose, persino le espressioni dei visi. Tutto parla di una visione del mondo spregiudicata, poco incline ai compromessi. Al centro, i rosa e gli azzurri della Deposizione del Pontormo, quella che incantò Bill Viola («Ma che cosa si sarà fumato Pontormo per fare questo?», ebbe a dire negli anni Settanta). La «voce preferita dei Medici», come hanno sottolineato i curatori.

Rosso e Pontormo avevano cominciato insieme, nella bottega di Andrea Del Sarto. Poi le loro vie divergeranno e così, a destra, ecco il futuro, una premonizione: l’intellettualismo dell’allievo di uno dei due, Agnolo Bronzino, che venti anni dopo si cimenterà nello stesso soggetto ma con una voce ancora diversa, dagli accenti teologici sono più marcati, così come l’abbigliamento dei protagonisti di uno dei momenti più tragici della storia religiosa. «La verità — sottolineano i curatori — è che nel secondo Cinquecento l’arte non ha mai imbroccato una unica strada, segnata dai dettami della Controriforma».

No, tutto oscillava tra lascivia e devozione. E non solo perché gli artisti chiamati a lavorare nelle produzioni sacre erano gli stessi che servivano le corti — con opere decisamente più ammiccanti —. Le radici di questa doppia anima, sacra e profana, sono precise. E stanno nella prima sala.

Quella che abbiamo saltato e che spalanchiamo adesso, sopraffatti dalla forza del dio fluviale di Michelangelo (tornato a nuova vita dopo un lungo restauro) che brilla davanti alla Pietà di Luco (1523-1524) di Andrea Del Sarto. Il Sarto, di poco più vecchio rispetto a Rosso e a Pontormo ma comunque maestro di entrambi.

È tutto qui: l’imperfezione sensualissima del dio michelangiolesco dà le spalle (o almeno doveva nelle intenzioni iniziali, se una manomissione avvenuta alla fine del ‘500 non lo avesse pressoché inchiodato a pancia in su) o quasi alla Pietà di Andrea Del Sarto, chiarissima nella sua devozione: l’ostia consacrata brilla sotto al corpo di Cristo e più lampante di così non si poteva dire a quei tempi. Tanto è vero che, ricordano Natali e Falciani, molti artisti chiamati a divulgare il verbo del Concilio di Trento si servirono di questa chiarezza espositiva. Che proseguirà nella sua rigorosa limpidezza? No, perché le deviazioni di Pontormo e Rosso sono evidenti. Ma c’è un asse.

C’è un filo rosso che arriva fino al Seicento e che è fatto di gesti, volti, occhi al cielo, mani tese, persino facce contratte dal dolore, torsioni di corpi. La sala degli Altari, per esempio, sembra una rappresentazione teatrale del dolore. Via i tramezzi dalle chiese conventuali, via le barriere tra chierici e laici, via i confini tra dolore «alto» e dolore «basso»: anche i santi qui sono vestiti alla maniera moderna perché bisognava identificarsi con loro. Un po’ come avviene oggi con alcuni rappresentanti reali delle Corone europee.

La sala dei Ritratti e degli Stili dello Studiolo di Francesco I è una galleria di caratteri e gusti. Artisti «capaci comunque di adeguarsi al decoro e alla sobrietà delle immagini quando illustravano soggetti religiosi, ma abili anche nell’affrontare con grande libertà espressiva temi profani di carattere sensuale», dice Falciani. Lascivia e devozione si rincorrono nelle sale seguenti, dove le allegorie e i riferimenti al mito aprono le porte al Seicento. E la stessa arte sacra, in seguito, assorbirà questo linguaggio metaforico per soluzioni fantasiose, sperimentali come quelle di Alessandro Allori o di Santi di Tito (guardate il gigantesco dipinto che chiude la mostra: i personaggi escono dal quadro e sembra si mescolino tra la gente).

Non è una mostra «pop» ma è una mostra bella. Ecco le reali intenzioni dei curatori e Natali, da livornese aguzzo, non le manda a dire: «mostre come questa o hanno organizzatori intelligenti, o hanno organizzatori masochisti oppure è lo Stato a farle».

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