La crisi turca ( e dell’Europa) ha tre radici.

Da quattro anni ormai la Turchia naviga nelle acque burrascose di un’instabilità politica senza precedenti. Come americano residente a Istanbul, ho vissuto in prima persona gran parte di questi sconvolgimenti: le proteste a Gezi Park e le loro ripercussioni; gli scandali della corruzione tra gli apparati governativi; l’invio di armamenti da parte di Erdogan ai combattenti islamici in Siria, tra i quali i miliziani di Jabhat al-Nusra, affiliati di Al Qaeda; fino alle purghe politiche dopo il colpo di Stato del 2016, che hanno visto l’arresto e l’incarcerazione di migliaia di intellettuali turchi. Ma quando rifletto sul futuro incerto della Turchia, i miei pensieri spesso tornano a una domenica di giugno del 2015, che ho trascorso con i miei figli.

Quel giorno si teneva la prima di una serie di elezioni parlamentari. Io non posso votare, perciò avevo pensato bene di esercitare il mio diritto di scelta nel più classico stile americano: andando a fare shopping con i miei bambini, di tre e cinque anni, a Ortaköy, un mercato di bancarelle all’aperto. Nel percorrere in taxi la Cevdet Pasha Cadessi — una delle arterie che costeggiano il Bosforo — ho consegnato ai bambini dieci monetine ciascuno, da spendere come volevano. Sentendomi parlare in inglese, mentre spiegavo ai bambini le virtù di un’attenta pianificazione degli acquisti, l’autista mi ha indicato un gigantesco manifesto elettorale del presidente Recep Tayyip Erdogan, che tappezzava l’intero lato di un palazzo di uffici. «Erdogan è una cattiva scelta». Poi, incrociando il mio sguardo nello specchietto retrovisore, ha aggiunto: «Ci vuole trasformare in un Arabistan!». Ho notato una bandierina metallica, incollata al cruscotto del taxi, la stella e la mezzaluna della Repubblica. Il conducente era uno dei tanti turchi che dissentivano da Erdogan e dal suo Partito della giustizia e dello sviluppo, l’Akp, proprio perché mirava a impartire una svolta al Paese, abbandonando la laicità a favore di una forma di governo totalitario di stampo islamico.

L’autista mi ha poi spiegato come il modo migliore per ostacolare Erdogan e l’Akp fosse quello di non votare per il Chp, il Partito repubblicano del popolo, il secondo del Paese, bensì per l’Hdp, che rappresenta gli interessi dei curdi e di altre minoranze. Se riusciva a superare la soglia del 10 per cento alle urne, l’Hdp avrebbe ottenuto un numero sufficiente di seggi in Parlamento per dare filo da torcere all’Akp nel formare un governo dotato di maggioranza. Il guidatore, chiaramente un turco laico, non sembrava per nulla scomporsi davanti al fatto che il leader dell’Hdp, Selahattin Demirtas, avesse stretti legami con i ribelli curdi che da trent’anni combattono nel Sud-Est del Paese. «Demirtas ci salverà da Erdogan», mi ha assicurato mentre pagavo la corsa, per poi profetizzare: «Sarà lui il salvatore della Turchia».

Mentre mi aggiravo tra le bancarelle ancora sguarnite di Ortaköy, qualche venditore cominciava solo allora a esporre le mercanzie, quasi che gli altri fossero stati trattenuti ai seggi elettorali. Per ingannare il tempo, tenendo tra le mie le manine dei bambini che stringevano le monetine, ci siamo diretti verso la moschea del sultano Abdülmecid. Eretta attorno a un’unica cupola bassa e ornata di due soli minareti, è una costruzione assai modesta in confronto alle ben più celebri Moschea Blu e Santa Sofia. Per via della mia discendenza sia cristiana che ebraica, ho sempre esitato ad avventurarmi in una moschea e questa in particolare non l’avevo mai visitata, pur essendovi passato accanto decine di volte. Con la maggioranza dei turchi impegnati a votare, quella m’è sembrata una buona occasione: ci siamo tolti le scarpe e siamo entrati. Dalle immense vetrate della moschea, affacciata sul Bosforo, una luce brillante inondava la sala principale, riverberando tra i lampadari di cristallo sospesi sotto una cupola meravigliosamente ricca di decorazioni e imponente come quelle che si ammirano in Vaticano. Sotto la cupola sono appesi otto pannelli verdi con scritte dorate, straordinari nella loro semplicità. Da queste parti si narra che i versetti del Corano siano stati dipinti a mano dallo stesso sultano Abdülmecid.

Per gran parte degli ultimi quattro anni, caratterizzati da crescenti tensioni politiche, in Turchia si sono scontrate diverse e contrastanti visioni del futuro della nazione. Continuerà ad essere una repubblica liberale e laica, con limitate ambizioni internazionali, simile a quella fondata da Mustafa Kemal Atatürk? Oppure tornerà indietro, ripercorrendo quel filone di tradizionalismo che si richiama alla storia ottomana, nel tentativo di riaffermare la sua posizione di massima potenza del mondo islamico? In piedi, sotto i versetti dipinti da Abdülmecid, mi chiedevo se queste visioni della Turchia fossero davvero contrastanti. Al potere dal 1823 al 1861, Abdülmecid si rivelò uno dei più grandi riformatori dell’Impero ottomano. Mentre rafforzava ed espandeva l’influenza della nazione all’estero, Abdülmecid istituì il primo ministero dell’Istruzione, abolì la tratta degli schiavi e persino depenalizzò l’omosessualità. Seppe far leva su secoli di potenza e tradizione ottomana non per consolidare strutture antiquate, bensì per favorire e avviare una nuova visione del Paese al passo con i tempi.

Davanti all’Isis in Iraq e al gruppo islamista al-Sham in Siria, che combattono per ristabilire l’antico califfato del VI secolo sui confini meridionali della Turchia, e mentre Paesi a maggioranza musulmana, come Egitto, Iraq, Libia e molti altri ancora, sono travolti dalla violenza o governati da regimi autoritari, i soli capaci di tenerli lontani dal baratro, la posizione della Turchia come leader del mondo musulmano riveste un’importanza cruciale. Tuttavia, da quelle elezioni del 2015 il Paese sembra avviato su una strada che non promette nulla di buono.

L’Hdp, il partito che suscitava l’entusiasmo del mio tassista, è riuscito effettivamente a superare la soglia del 10 per cento e a impedire all’Akp di Erdogan di formare un governo di maggioranza. Ma anziché accettare questa realtà, il presidente ha indetto una consultazione lampo per il successivo novembre. Nel frattempo, si è affrettato a chiudere molti mezzi di comunicazione favorevoli all’opposizione e ha revocato il cessate il fuoco stipulato con i curdi nel turbolento Sud-Est del Paese. Queste misure hanno scatenato una serie di attacchi terroristici nel corso di quell’estate e nell’autunno del 2015, tra i quali il più micidiale della storia turca, quando l’esplosione di una bomba durante un comizio politico ad Ankara provocò 103 vittime. Chiamati di nuovo alle urne a novembre, i turchi hanno negato il loro appoggio al partito curdo e di conseguenza l’Akp ha recuperato la maggioranza di governo.

L’estate successiva, la notte del 15 luglio 2016, un contingente di militari laici, teoricamente favorevoli a Fethullah Gülen, avversario di Erdogan, ha tentato un colpo di Stato in risposta alla stretta del presidente sul potere. Mentre i caccia militari sfrecciavano nel cielo di Istanbul, spaventando i cittadini con i loro boati, gli elicotteri da combattimento lanciavano missili contro gli edifici del governo ad Ankara. Ma quando Erdogan è apparso in televisione e si è appellato alla cittadinanza, invitandola a scendere nelle strade per sbaragliare i congiurati, le cui azioni rischiavano di ribaltare i risultati elettorali dell’anno precedente, i turchi hanno risposto in modo massiccio, facendo fallire il colpo di Stato.

Nei mesi successivi, il governo di Erdogan ha dichiarato lo «stato di emergenza», che resta in vigore ancora oggi. Grazie alle leggi speciali, decine di migliaia di oppositori sono stati arrestati e imprigionati, tra i quali anche membri dell’opposizione politica e quello stesso Selahattin Demirtas, capo dell’Hdp, che il mio tassista aveva esaltato come «salvatore della Turchia». Al momento del suo arresto, quasi un anno fa, gli è stata revocata l’immunità parlamentare.

Con il Paese ancora sotto lo «stato di emergenza», Erdogan ha indetto un referendum costituzionale nell’aprile del 2017, che molti ritengono fosse già nelle sue mire da parecchio tempo. La Turchia gode di un sistema parlamentare guidato da un primo ministro, incarico che Erdogan ha ricoperto per tre mandati fino al 2014, quando non è stato più rieleggibile. Anziché ritirarsi dalla politica, Erdogan ha occupato la poltrona di presidente, una carica rappresentativa secondo i dettami costituzionali. L’obiettivo centrale del suo referendum, tuttavia, era la creazione di una presidenza esecutiva con poteri senza precedenti, che gli avrebbe consentito di restare al potere in veste presidenziale fino al 2029, marginalizzando la figura del primo ministro.

Malgrado la repressione seguita al mancato colpo di Stato, l’opposizione ha fatto sentire la sua voce per condannare il referendum costituzionale. Quando lo scorso gennaio Aylin Nazliaka, una deputata indipendente, si è ammanettata al microfono del seggio, tra i membri del Parlamento è scoppiata una colluttazione. Durante la campagna Hayir/Evet («No/Sì») che è seguita, il governo ha tagliato la corrente ai comizi del No e i politici hanno fatto i loro discorsi nelle sale illuminate dalla luce dei cellulari. Gli osservatori internazionali dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, inviati a monitorare le elezioni, hanno dichiarato che «il referendum costituzionale del 16 aprile non s’è svolto in condizioni di parità e i contendenti politici non hanno goduto delle medesime opportunità». Il referendum ha approvato la proposta del governo con il 51,41 per cento dei voti, portando Erdogan verso quello che, secondo molti, aveva sempre mirato in politica: il controllo totale della Turchia.

Ebbene, che cosa intende fare con quel potere?

Qualche sera fa, a Istanbul, ho cenato su una terrazza panoramica con tre amici turchi: un editore con la moglie, conduttrice televisiva, e un altro che scrive per un giornale di sinistra. Il giornalista si lamentava della situazione politica in Turchia, preoccupato per la sorte di alcuni colleghi finiti in manette. Ha poi chiesto notizie alla conduttrice sul suo nuovo incarico alla Trt, l’emittente di Stato, dove molte sue colleghe indossano l’ hijab . Davanti allo sconcerto del giornalista, la conduttrice ha elogiato la serietà delle donne velate, spiegando che per ciascuna di loro l’ hijab rappresenta una scelta intellettuale, per poi affermare di non sentirsi affatto condizionata dalle colleghe a coprirsi il capo anche lei. «Se ci tengono a portare il velo al lavoro», aveva commentato il giornalista, «che andassero a vivere in Arabia Saudita». «E perché mai?», è stata la risposta. «Il nostro è un Paese laico e libero. Anche loro possono fare quello che vogliono».

Questo scambio mi ha fatto ripensare al colloquio con il tassista di quasi due anni prima, quando l’uomo aveva accusato Erdogan di voler trasformare la Turchia in un «Arabistan». La Turchia è un Paese a cavallo tra due continenti, con Istanbul — una città tagliata dal Bosforo e protesa sia verso l’Europa che verso l’Asia — come suo simbolo più rappresentativo. Lo scontro tra islam e laicismo all’interno della società turca, tuttavia, spesso viene ridotto a un contrasto tra Oriente e Occidente. Le tensioni che io avverto nella società turca, invece, mi sembrano ben note e assai diffuse in ogni angolo del pianeta, che si tratti di divergenze tra religione e Stato, come negli Stati Uniti; oppure di regionalismo contro nazionalismo, come in Europa; o ancora che si tratti di corruzione politica, un cancro da cui nessun Paese è immune. I turchi, però, spesso si lamentano del modo in cui si tende a orientalizzare i loro problemi, con il rischio di sollevare equivoci e incomprensioni. Per esempio, il dibattito sull’ingresso o meno nell’Unione europea non è mai circoscritto a questo tema, ma si allarga ben presto a un’indagine esistenziale sulla volontà dei turchi di entrare a pieno titolo nel mondo moderno, o di regredire verso l’esotismo. Dopo il dramma politico degli ultimi quattro anni, i turchi stanno rimettendo in discussione l’indirizzo generale del loro Paese. Alcuni sono convinti che occorre tornare sotto il manto ottomano e assurgere a Paese guida del mondo islamico. Con Erdogan, costoro sperano di trovare l’equivalente moderno del sultano Abdülmecid, un riformatore che potrebbe indirizzare il suo modello di nazionalismo verso un orizzonte più ampio sullo scenario globale. Altri invece temono che gli eccessi politici di Erdogan, e i suoi passi indietro nei confronti della laicità, minaccino di compromettere i principi fondanti della repubblica turca.

Quando mi sforzo di capire le recenti mosse politiche della Turchia, i miei ricordi spesso tornano a quelle elezioni di due anni fa, e al tempo passato a discutere di scelte con i miei figli. Dopo aver lasciato la moschea del sultano Abdülmecid, ci siamo accorti che solo pochi venditori avevano fatto ritorno dai seggi. Stringendo in mano le loro dieci monetine, i miei bambini hanno passato in rassegna le scarse offerte del mercato — giocattoli di plastica, qualche articolo di bigiotteria. Non avendo trovato nulla di interessante, erano rimasti piuttosto delusi. Avrebbero voluto comprare qualcosa. Per consolarli, ho suggerito di mettere da parte le loro dieci lire e alla prossima visita avrei raddoppiato la cifra. Se erano pazienti e sapevano aspettare, forse sarebbero riusciti a comprare proprio quello che desideravano. «Sì, ma quando?» hanno subito cominciato ad assillarmi.

( traduzione di Rita Baldassarre )