La crisi italiana ultima chance per l’Europa.

Oggi le nazioni sono sopraffatte dagli imperativi incontrollati di un capitalismo mondiale guidato da mercati finanziari senza regole. Ritirarsi spaventati dietro i confini non può essere la risposta giusta
Sul mio diploma di maturità alla nota aspirazioni lavorative compare: Habermas intende intraprendere la carriera giornalistica. Però fin dalla mia prima esperienza nella redazione locale di Gummersbach del Kölner Stadt-Anzeigers e in seguito presso Adolf Frisé per la pagina culturale di Handelsblatt mi è stato sempre detto che la mia scrittura è ostica. Persino il benevolissimo Karl Korn, che quando ancora studiavo all’università di  Bonn mi aveva incoraggiato a esercitarmi con la penna  in seguito mi consigliò di restare nell’ambito delle mie attività accademiche. Questo genere di considerazioni permane nelle lettere dei lettori anche ultimamente e alla mia età non cè più speranza di migliorare. Per questo sono particolarmente lieto che il direttore artistico del servizio pubblico radiotelevisivo del Saarland mi abbia invitato a seguire le orme di illustri predecessori quali Tomi Ungerer, Simone Veil e Jean Asselborn per avermi conferito il Deutsch-Französischen Medienpreis.

Non entrerò nel merito dei segnali di disagio che arrivano dalla Baviera, che hanno aperto una crisi di governo ricacciando sullo sfondo il vero problema, ossia la scarsa disponibilità alla cooperazione in seno all’Ue. La responsabilità è di quegli europeisti che non ammettono di nutrire effettivamente dei dubbi verso un’Europa solidale. Jean-Paul Sartre ha magnificamente contrapposto la mauvaise foi alla bonne foi. Chi di noi non ha mai avvertito questa lieve inquietudine: agiamo in buona fede, ma in momenti più tranquilli ci rode il dubbio circa la coerenza delle nostre convinzioni espresse con tanta intransigenza. C’è un punto critico in cui il flusso delle nostre argomentazioni sbanda inavvertitamente.

La comparsa di Emmanuel Macron sul palcoscenico europeo ha rappresentato il punto critico dell’opinione che hanno di sé quei tedeschi che ai tempi della crisi dell’eurozona erano tronfi e certi di essere ancora i migliori, quelli che tiravano fuori dai guai tutti gli altri europei.

Non associo all’attribuzione di questa mauvaise foi alcuna critica di stampo morale. Perché chi ha un convincimento di questo genere, in una certa misura marcio dall’interno, da un lato non ne è totalmente responsabile, dall’altro non è nemmeno privo di responsabilità. In questo senso esiste una analogia tra l’europeismo di noi tedeschi con un fenomeno diversissimo, ossia quello diffuso nei monasteri cistercensi dell’undicesimo secolo tra i monaci tormentati da incertezze, che cadevano in un malinconico stato di insofferenza. Questa malinconia chiamata accidia da un lato non veniva punita come peccato perché non oltrepassava la soglia cognitiva del dubbio religioso vero e proprio; dall’altro questa malattia dei monaci non doveva rientrare nei parametri clinici di una depressione che avrebbe scaricato il paziente di ogni responsabilità. I monaci non erano imputabili per la loro accidia, non dovevano però neppure scaricarne totalmente la responsabilità. Proprio questo fluttuare dei confini  della responsabilità è caratteristica della buona fede, e ci fa intuire che qui si nasconde un problema la mauvaise foi.

Naturalmente molti critici della politica di austerity ispirata dalla Germania, oltre a ritenerla sbagliata, hanno sempre sospettato che dietro la sbandierata solidarietà si celasse una discriminazione. Ma la stampa tradizionale per molti anni ha fatto sì che i tedeschi continuassero a credere in buona fede di aderire al ruolo solidaristico anche in tempi di crisi, di essere un oculato gestore della crisi  e un generoso finanziatore. La Germania non ha sempre avuto come obiettivo il bene di tutti gli stati membri compreso lo sfortunato tentativo di indicare la porta ai greci? A fronte delle sfide impreviste poste da una situazione internazionale radicalmente mutata questo autoritratto gratificante mostra le prime crepe. Cito a testimonianza di questo un articolo pubblicato recentemente che parla della famigerata notte in cui il presidente francese ha estorto alla cancelliera tedesca la garanzia che i greci non sarebbero stati esclusi dall’unione monetaria. Solo oggi, a tre anni di distanza, Cerstin Gammelin con l’acume che le è proprio, è autorizzata a ricordare con schietttezza il momento più basso del nostro spudorato egoismo economico nazionale (Südduetsche Zeitung del 21 giugno  2018).

Nella vecchia Repubblica federale tedesca e fino a Kohl l’immagine dei tedeschi come buoni europei aveva reali ragioni di esistere per motivi che derivavano anche da una situazione di nazione assediata, non solo in senso militare. La sensazione di normalità di una nazione finalmente felicemente riunita sotto Kohl ha dato a questa identità nuovi accenti, rafforzandola. A seguito delle crisi bancarie e del debito pubblico questa immagine ha finito per diventare sempre più egoistica assumendo i caratteri della mauvaise foi. Il punto critico di questo autoinganno in buona fede si svela nel momento in cui emerge per contrasto la nostra sfiducia nella disponibilità delle altre nazioni, soprattutto quelle del sud europeo,  a collaborare. Ad un ascolto attento, si nota che la cancelliera fa delle espressioni lealtà e solidarietà un uso peculiare. Nel corso di un recente colloquio con la giornalista tedesca Anne Will, facendo appello a un’azione politica congiunta dei partner europei sul tema della politica dell’asilo e della guerra dei dazi Usa la cancelliera ha invocato lealtà. In genere è il datore di lavoro che si attende lealtà dai suoi collaboratori, mentre l’azione politica richiede comunemente più solidarietà che lealtà. Partendo da interessi diversi, bisogna sacrificare i propri a quello generale ciascuno per la sua parte. Nell’ambito delle politiche d’asilo non tutti i Paesi sono interessati dalle migrazioni nella stessa misura, ad esempio per motivi geografici; e non tutti dispongono delle stesse capacità di accoglienza. Oppure i dazi Usa annunciati sulle importazioni delle auto si rivelano di maggiore impatto su un Paese, in questo caso la Germania, rispetto ad altri. Qui l’azione politica comune si realizza nel momento in cui il singolo rispetta gli interessi altrui e si assume la responsabilità della decisione politica presa in comune. L’interesse tedesco prevalente nei due casi citati è evidente cosi come lo è nel perorare la causa di una politica estera comune.

La scelta della cancelliera di usare in questi casi il termine lealtà si spiega con il fatto che da anni usa solidarietà in un senso diverso, ristretto all’ambito economico. “Solidarietà contro responsabilità” recita lo slogan per indorare la pillola della politica di austerity degli ultimi anni. Voglio arrivare alla trasformazione condizionante subita dal concetto di solidarietà; è il punto critico sotto il profilo semantico in cui oggi inizia a sbriciolarsi la certezza che noi tedeschi siamo i migliori europei. Contrariamente a tutte le dichiarazioni circa trasferimenti poi mai effettuati, la mancanza di legittimità e il dubbio successo di limitazioni di bilancio che frenano gli investimenti e di riforme del mercato del lavoro che comportano la disoccupazione per generazioni intere,  a poco a poco passano anche nella coscienza pubblica.  Il concetto di “solidarietà” si riferisce al rapporto di reciproca fiducia tra attori che si impegnano spontaneamente in un’azione politica comune. Solidarietà non significa amore per il prossimo, ma rifiutare i condizionamenti a vantaggio di una delle parti. Chi si comporta in maniera solidale è disposto, sia per proprio interesse a lungo termine, sia per fiducia che gli altri in condizioni analoghe si comportino nello stesso modo, ad accettare svantaggi nel breve periodo. Fiducia reciproca, nel nostro caso: la fiducia che travalica i confini nazionali è una variabile importante quanto l’interesse particolare a lungo termine. La fiducia supera il termine finchè è dimostrata una prospettiva possibile di contropartita, di cui non si conoscono però i tempi e i  modi. Nello stretto condizionamento imposto dalle cosiddette prestazioni di solidarietà si rivela invece la carenza in noi tedeschi di una tale base di fiducia  e la conseguente vacuità del nostro sentirci, al livello nazionale, dei buoni europei.

Nelle trattative circa le proposte di riforma di Macron la Germania e altri Paesi esitano a trasformare, potenziandola, l’unione monetaria (che oggi opera in condizioni non ottimali), in una vera unione politica europea. Bisognerebbe blindare l’eurozona democratica – non solo contro le speculazioni – con una unione bancaria incontestabile, una sicurezza dei depositi di risparmio e un fondo monetario controllato a livello europeo. Dovrebbe essere soprattutto dotata delle competenze e dei mezzi di bilancio per intervenire e  contrastare i divari  economici e sociali tra i vari  Stati membri. Non si tratta solo di dare stabilità fiscale, ma di ottenere convergenza, intenti politici credibili da parte degli Stati membri più forti sotto il profilo economico e politico, mantenere le promesse infrante della moneta unica di produrre uno sviluppo economico convergente.

Il populismo di destra può anche provocare un’escalation dei pregiudizi contro i migranti e sfruttare la paura che i ceti medi  hanno della modernizzazione, ma i sintomi non sono la malattia. La causa più profonda della regressione politica è la tangibile delusione per il fatto che l’Ue nella sua forma attuale manca non solo della necessaria capacità di azione politica nel contrastare le tendenze di una crescente diseguaglianza sociale all’interno degli Stati membri e tra di loro. Il populismo di destra si deve in primo luogo alla diffusa presa di coscienza da parte degli interessati che all’Ue manca la volontà politica di sviluppare una reale capacità di azione. Il nucleo dell’Europa, oggi a rischio, trasformato in una euro-unione capace di agire sarebbe l’unica forza concepibile contro l’ulteriore distruzione del nostro modello sociale tanto evocato. Invece, nella sua attuale versione l’Unione non può far altro che accelerare questa destabilizzazione. La causa della deriva “trumpiana” dell’Europa è la crescente consapevolezza, quanto mai realistica, da parte delle popolazioni europee che manca una volontà politica credibile di uscire da questo circolo vizioso. Invece le élite politiche vengono risucchiate dal vortice di un opportunismo pavido, legato ai sondaggi, al fine di mantenere il potere a breve termine. Sono del parere che le élite politiche  e soprattutto gli scoraggiati partiti socialdemocratici europei  non hanno abbastanza fiducia nelle capacità dei loro elettori. Che questa opinione non è solo specchio di ideali filosofici delusi lo dimostra la recente pubblicazione del gruppo di ricerca di Jürgen Gerhard, che da molti anni conduce in 13 Stati dell’Ue validi studi comparati sul tema della disponibilità alla solidarietà, per cui si è formata non solo una coscienza della solidarietà europea diversa da quella nazionale, ma anche una inattesa forte disponibilità a sostenere le politiche europee, che prevedano una redistribuzione al di là dei confini nazionali.

La crisi italiana è forse l’ultima occasione per riflettere sull’oscenità dell’imporre regole rigide all’unione monetaria europea a vantaggio degli Stati membri economicamente più forti, senza aprire come contropartita a spazi e competenze per un’azione comune flessibile. Per questo il primo piccolo passo verso la costruzione di un bilancio europeo che Macron ha strappato a Merkel qualche settimana fa assume una tale valenza simbolica. E ben strano che una Germania che si trova con le spalle al muro venda pezzo per pezzo la sua forte resistenza contro ogni passo verso l’integrazione. Non so spiegarmi perché il governo tedesco creda di riuscire a convincere i partner ad azioni comuni  sulle questioni della politica dei profughi, della politica estera e del commercio estero (vedi i dazi americani) per noi così importanti ,quando al contempo li blocca nella questione di importanza vitale del consolidamento politico dell’eurozona.

Il governo tedesco mette come uno struzzo la testa sotto la sabbia, mentre il presidente francese esprime chiaramente l’intenzione di rendere l’Europa un attore globale nell’ambito di un ordine mondiale liberale ed equo. Anche l’eco che il compromesso Francia-Germania di Meseberg ha avuto nella stampa tedesca è fuorviante: come se Macron con il consenso al bilancio dell’eurozona avesse ottenuto un successo necessario in cambio del suo sostegno alla politica dell’asilo di Merkel. Questo maschera il fatto che Macron quantomeno ha ottenuto l’accesso a una agenda che va ben oltre gli interessi di un singolo Paese, mentre Merkel lotta per la sua personale sopravvivenza politica. Macron viene a buona ragione criticato in patria per le sue riforme poco equilibrate ma si distingue dai leader europei perché valuta ogni problema attuale da una prospettiva più ampia e quindi non si limita ad agire in una semplice azione-reazione. Lo caratterizza il  coraggio di una politica progettuale. E i suoi successi contraddicono la tesi per cui la complessità della società permetterebbe solo di agire in  reazione ai conflitti per evitarli.

La prospettiva dell’eterna ascesa e decadenza degli imperi si sottrae alla novità storica della situazione attuale. La società mondiale sempre più integrata è politicamente tuttora frammentata. Il disarmo della politica genera un senso di limite di fronte al quale le popolazioni oggi trattengono il fiato e si tirano indietro dalle forme sovranazionali di integrazione politica, oltre i confini  nazionali. I difensori del realismo politico che esprimono tutto il loro disprezzo a riguardo, dimenticano che la loro teoria sulla guerra fredda era concepita tra due attori razionali. Dove è la razionalità dell’azione nello scenario odierno? Sotto il profilo storico, il dovuto passo in direzione di una unione europea capace di azione politica,  equivale a continuare un  processo di apprendimento iniziato ai tempi della costruzione dell’identità nazionale nel XIX secolo. Anche allora la consapevolezza dell’appartenenza a una nazione, al di là del Paese, dello Stato e della regione di provenienza non è giunta  naturalmente; è stata adattata dalle élite dominanti ai contesti funzionali già esistenti dei moderni Stati territoriali e delle economie. Oggi le popolazioni nazionali sono sopraffatte dagli imperativi funzionali politicamente incontrollati di un capitalismo mondiale guidato da mercati finanziari senza regole. Ritirarsi spaventati dietro i confini nazionali non può essere la risposta giusta. Questo vale soprattutto per quanto riguarda le politiche di asilo, se i Paesi europei non vogliono ripiombare nella mentalità avvelenata tipica delle potenze coloniali”.
© Jürgen Habermas
Questo discorso è stato pronunciato in occasione del conferimento del Deutsch-Französischen Medienpreis