La crisi d’identità della scienza schiava dell’interesse economico Conversazioni Il fisico ospite domani e domenica 23 al Festival dei Sensi espone la sua visione critica.

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di Paolo Giordano

L’allarme di Lévy-Leblond : persi di vista i veri obiettivi della ricerca

È piuttosto raro trovare degli scienziati disposti a criticare la scienza. Per la maggior parte gli scienziati considerano il proprio mondo senza peccato, sporcato magari da qualche neo organizzativo e procedurale ma comunque più limpido e meno corruttibile dell’ambiente più ampio che lo contiene. Una messa in discussione dei fondamenti del pensiero scientifico, di ciò che esso è diventato, è in generale rimossa dalle coscienze di professori e ricercatori e studenti. Jean-Marc Lévy-Leblond rappresenta un’eccezione scomoda a questa tendenza dominante. Dopo un passato da studente in fisica teorica, da ricercatore e da professore tra Parigi e Nizza, è diventato uno dei più disincantati critici della scienza, uno fra i pochi a muovere delle obiezioni dall’interno.
Ciò contro cui egli punta il dito è proprio la cognizione di sé — troppo scarsa, sostiene — delle scienze odierne. Le sue idee al riguardo sono concentrate in un libro pubblicato nel 2008 da Codice, «La velocità dell’ombra», e sparpagliate in una miriade di scritti brevi e di interventi a conferenze, le ultime delle quali si terranno in Italia, nell’ambito del Festival dei Sensi (domani alle 21 alla Cava del Casellone di Locorotondo, Bari, in dialogo con il fisico Fabio Truc, e domenica 23 alle 11 a Ostuni, Villa Annamaria).
Fra i concetti sui quali Lévy-Leblond insiste, c’è quello particolarmente interessante di «tecnoscienza», una forma di progresso scientifico che avrebbe, non senza rischi, ormai quasi soppiantato quello tradizionale. Cominciamo la nostra conversazione da lì. «Stiamo vivendo la fine di un’epoca», dice Lévy-Leblond, «un’epoca iniziata poco prima del 1900, e durante la quale la comprensione del mondo è andata di pari passo con la possibilità di trasformarlo. Il successo stesso delle tecniche fondate sulle conoscenze scientifiche ha portato, in una società dove le prime sono sviluppate più in funzione dei vantaggi economici che dei benefici umani, ad assoggettare sempre più le ricerche scientifiche a esigenze di rendimento e di produttività a breve termine. Tutto ciò è andato a detrimento del loro contributo concettuale e culturale».
La logica di mercato arriverebbe addirittura a cambiare ciò che è la verità scientifica? In altre parole, il bosone di Higgs, intorno al quale si è condensato un certo romanticismo negli ultimi anni, esisterebbe «comunque» se l’Unione Europea non avesse deciso di stanziare un’enorme quantità di soldi per il Large Hadron Collider, al fine di mostrarcelo? «Non si tratta di mettere in dubbio la nozione di verità scientifica in assoluto, quanto di aggiungervi quella di pertinenza : non è sufficiente che un risultato scientifico sia vero per essere anche interessante. Ma in che cosa risiede l’interesse? Nella portata intellettuale del risultato? Nelle sue applicazioni pratiche? Oppure nella possibilità di essere sfruttato economicamente? Oggi l’ultimo aspetto tende manifestamente a sovrastare il primo».
Oltre a un progresso scientifico sempre più piegato alle regole del profitto, Lévy-Leblond ne presenta uno sempre più arrogante. «Quest’arroganza della scienza e la fiducia eccessiva ch’essa esige (talvolta per risolvere certi suoi stessi problemi) minacciano di ritorcerlesi infine contro. Le promesse non mantenute, come l’energia a buon prezzo e la fine del cancro, rischiano di suscitare disapprovazione, perfino ostilità. Non si dovrebbe mai separare la presentazione dei progressi della scienza con quella dei suoi limiti».
Eppure il Novecento è stato proprio il secolo delle grandi promesse, in larga parte disattese: non solo la «guerra totale» contro il cancro dichiarata da Nixon e la fusione fredda, ma anche il programma di Hilbert per addomesticare la matematica, le definizioni pompose come «Teoria del Tutto» e l’illusione di governare lo spazio cosmico. La tecnologia non ci sta forse facendo oggi delle promesse simili? La realtà virtuale, le potenzialità apparentemente illimitate dei microchip, la manipolazione genetica… «Molte di queste idee assomigliano, in effetti, più ad annunci pubblicitari che a previsioni razionali. Se un comportamento del genere non sorprende molto quando è adottato dalle imprese commerciali, è grave vederlo riprodotto da parecchie realtà scientifiche, desiderose di ottenere i finanziamenti (pubblici o privati) necessari al proseguimento della loro ricerca».
In alcuni scritti, con un certo coraggio, Lévy-Leblond denuncia il «notevole abbassamento della qualità media» della ricerca, e «il susseguirsi di episodi inquietanti di aberrazioni metodologiche». Chi si occupa di fare il referee per le riviste scientifiche, come lui, se ne accorgerebbe ogni giorno. «Almeno due fenomeni hanno concorso negli ultimi decenni a degradare la qualità della ricerca scientifica: da una parte la concorrenza sempre più pronunciata per aggiudicarsi le risorse economiche porta alla fretta nelle pubblicazioni e a un indebolimento dei controlli sulla loro validità; dall’altra parte c’è l’inadeguatezza crescente della formazione degli scienziati, ormai quasi privi di ogni conoscenza a proposito del contesto nel quale operano, sia esso storico, epistemologico, sociologico. Sono questi i campi nei quali una competenza minima sarebbe importante per avere una ricerca migliore».
Nel secolo scorso, con l’avanzamento sfrenato di molte discipline scientifiche, si è prodotta la ben nota separazione fra le «due culture». Si è parlato parecchio del disinteresse (misto a incomprensione) che il mondo umanistico ha nutrito a lungo nei confronti delle scienze, della cultura-senza-scienza insomma, ma Lévy-Leblond denuncia altresì il fenomeno opposto, la scienza-senza-cultura, una scienza senza memoria di sé, senza capacità di autoanalisi. «Non mi pare che l’idea delle “due culture” sia veramente adeguata — ribatte — la cultura è necessariamente “una e indivisibile”, come la Repubblica francese. La scienza era una parte integrante della cultura quando si sviluppò nella sua forma moderna nel diciassettesimo secolo, come dimostra il caso emblematico di Galilei, fisico geniale ma insieme grande scrittore. Le sue competenze nella pittura e nella musica ebbero un ruolo decisivo nei suoi lavori scientifici. Ma l’istituzionalizzazione e la tecnicizzazione, nel diciannovesimo e ancora più nel ventesimo secolo, hanno allontanato le scienze dalla cultura umanistica, per lo meno le scienze naturali. Questo spiega forse perché esse vengano talvolta chiamate “scienze inumane e asociali”…».
A proposito di Galilei, al Festival dei Sensi Lévy-Leblond parlerà della fisica dell’Inferno. Nel 1588 lo studioso pisano, su sollecitazione dell’Accademia fiorentina, provò a dedurre le caratteristiche dell’aldilà a partire dalle informazioni contenute nella Commedia . Raccolse le proprie tesi in due lezioni «circa la figura, sito e grandezza dell’ Inferno di Dante»: un genere di operazione, fra scienza e non-scienza, che oggi farebbe storcere il naso o almeno sorridere molti fisici. Eppure, Galilei svolse la ricerca come se non si trattasse di un semplice divertissement. E altri proseguirono il suo lavoro nei secoli successivi, fino a creare una piccola branca di fisica infernale. «Quello che m’interessa è la molteplicità di ruoli che l’Inferno ha giocato nello sviluppo scientifico e il modo in cui ne ha illustrato certe radici culturali trascurate. Le lezioni di Galilei sono un lavoro rimarchevole di esegesi letteraria, che gli permise di dimostrare come le scienze, nel caso specifico la geometria, potessero contribuire all’approfondimento della cultura. Bisogna notare, inoltre, che alcuni problemi ai quali Galilei accennò in quel lavoro si rivelarono in seguito cruciali per le sue teorie sulla resistenza dei materiali. In epoca più recente, nel diciottesimo secolo, fu la volontà di conciliare scienza e religione all’interno di una “teologia naturale” a spingere gli studiosi inglesi a interessarsi seriamente alle proprietà dell’Inferno. Ai giorni nostri i riferimenti all’Inferno restano invece essenzialmente a livello di metafora, per esempio quando si cerca di spiegare le condizioni climatiche sul pianeta Venere, ma dimostrano l’impossibilità per la scienza di distaccarsi del tutto dal proprio contesto culturale».
Tutto considerato, secondo Lévy-Leblond la scienza di oggi (o la tecnoscienza che sia) andrà in Paradiso oppure all’Inferno? «Questo non dipende solo dagli scienziati, ma soprattutto dai profani che se ne interessano e ne subiscono le ricadute. In ogni caso, è indubbio che la scienza dovrà innanzitutto passare attraverso un lungo Purgatorio».