di Antonio Armellini
L’Italia sta dando l’impressione di essere più presente sulla scena africana, ma la nostra voce resta flebile. La recente visita di Giuseppe Conte ad Addis Abeba ed Asmara per celebrare la fine della guerra fra Etiopia ed Eritrea, una delle più sanguinosamente inutili del continente africano fra due nostre ex colonie (ma in realtà anche per cercare aiuto sull’immigrazione clandestina) è passata pressoché sotto silenzio; del pasticcio libico vediamo le ricadute quasi ogni giorno.
Forse non è inutile guardare alle ragioni per cercare di capire cosa fare.
Sulla vicenda coloniale dell’Italia, iniziata sul finire dell’Ottocento, è stata operata una rimozione salvifica che l’ha sovrapposta a quella del fascismo, unendo entrambe nella medesima condanna e prendendo al tempo stesso le distanze dalle responsabilità dell’Italia democratica.
Questa lettura è stata a volte recepita dagli stessi Paesi ex coloniali, con effetti anche bizzarri. Nell’Etiopia del dittatore Menghistu la vittoria di Adua veniva ricordata con sfilate di carri allegorici sulle violenze degli aggressori italiani; per rendere meno indigesta la cosa a noi il generale Baratieri e i suoi uomini venivano vestiti in camicia nera. Divenuta così fascista, Adua poteva essere condannata da tutti senza problemi.
Le nostre ex colonie sono diventate i punti di crisi più intrattabili del continente: la Somalia è un «failed state» in preda a bande rivali; la situazione in Libia è sotto i nostri occhi ogni giorno; l’Eritrea è nelle mani di un dittatore sanguinario — prodotto malriuscito dell’università italiana — in un Paese da cui chi può fugge; l’Etiopia oscilla fra temporanei aggiustamenti e instabilità. Anche gli altri hanno la loro quota di Paesi devastati da conflitti, ma l’Italia è l’unica in cui il disastro coinvolga tutti ed è legittimo chiedersi come mai.
Inglesi, francesi, tedeschi hanno cercato di massimizzare, come tutti, lo sfruttamento coloniale utilizzando strumenti derivati da modelli nazionali che erano espressione di culture amministrative e dello stato solide.
All’atto dell’indipendenza, i nuovi Paesi hanno affrontato il difficile e spesso drammatico passaggio dalla dipendenza all’autonomia con una ossatura di governo che, per quanto dettata da logiche estranee, ha permesso di svilupparne la dimensione identitaria e di preservare una relativa omogeneità amministrativa (e linguistica) attraverso le crisi.
L’Italia coloniale era uno stato debole con una amministrazione boriosa e inefficiente e tale è il modello che ha applicato; sta qui la prima spiegazione della fragilità delle strutture di governo e dello stesso carattere statuale dei territori che ha amministrato. Due eccezioni confermano l’assunto: il Somaliland è sopravvissuto alla decomposizione del resto della Somalia perché era stato una colonia britannica; l’Etiopia, era già da prima del nostro breve interregno uno stato più o meno funzionante. La nostra presenza è stata soprattutto fisica, nel costruito: strade, case, piani urbanistici ed agricoli, hanno lasciato una traccia forte, al di là della retorica «imperiale» smargiassa del fascismo; è stata la rappresentazione di un paese contadino ed operaio che usava gli strumenti che gli erano abituali per una colonizzazione vista anche come volano per l’emigrazione, le cui conseguenze solo la brevità dell’occupazione ci ha permesso di contenere (se il progetto mussoliniano di trasferire decine se non centinaia di migliaia di persone nella «Romagna d’Etiopia» sull’altopiano amarico fosse andato in porto, ci saremmo ritrovati fra le mani un po’ di anni dopo una seconda Algeria). I piani regolatori elaborati con enorme dispendio (chissà se un giorno si saprà quanto) per tutte le maggiori città etiopiche sono rimasti lettera morta, ma in Eritrea — l’unica colonia italiana propriamente detta — una stratificazione architettonica e urbanistica ricca e variata è entrata a far parte del patrimonio nazionale; un caso tanto interessante quanto raro di una interposizione coloniale che diventa fattore condiviso di identità. Ma sul nation building no, non ci siamo stati.
Ci sono voluti storici come Angelo Del Boca per squarciare il velo della retorica — questa sì, soprattutto fascista — degli italiani «brava gente», colonizzatori onesti, attenti al benessere delle popolazioni sottomesse e così via.
Ci siamo resi responsabili di atrocità e violenze come gli altri e la nostra colonizzazione ha fallito non (solo) perché era fascista, ma perché era uno specchio delle carenze del paese. Abbiamo mostrato di saper costruire, ma non di saper governare, il che spiega come mai della nostra presenza amministrativa, culturale e linguistica non sia rimasto quasi nulla (in Namibia, dove la Germania è rimasta poco più di un ventennio, il tedesco è ancora lingua veicolare). La rimozione non aiuta a ricostruire una presenza in un continente che resta fondamentale per il nostro futuro.