LA CRESCITA DEBOLE CHE CI ASPETTA.

 

Un tempo l’élite economica mondiale – finanzieri e ministri dell’economia, banchieri, industriali – si dava appuntamento all’assemblea del Fondo monetario internazionale (Fmi) e della Banca Mondiale nel gradevole clima di Washington all’inizio dell’autunno. Ora, invece, l’attenzione è concentrata sul convegno di Davos, il centro turistico svizzero dove quest’anno ci sono da 1,7 a 3 metri di neve e oltre tremila partecipanti, pochissimi dei quali metteranno gli sci ai piedi, essendo già impegnati in un difficilissimo slalom tra statistiche, diplomazia, affari, gruppi di studio e comunicati stampa. Forse proprio per evitare che i «professionisti» dell’analisi economica venissero cancellati dalla scena, Christine Lagarde, direttore esecutivo del Fondo, ha messo le mani avanti scegliendo proprio la giornata di ieri per diffondere le previsioni della sua organizzazione (sovente considerate le più autorevoli del mondo) sull’andamento dell’economia mondiale nei prossimi due anni. Il titolo è telegrafico e almeno in parte enigmatico: «Prospettive migliori, mercati ottimistici, sfide davanti a noi». E nel suo intervento di presentazione Lagarde ha affermato in maniera altrettanto telegrafica: «Dobbiamo sentirci incoraggiati ma non soddisfatti». Che cos’è che non soddisfa Christine Lagarde mentre le Borse sono euforiche e i finanzieri, soprattutto americani, trasudano ottimismo? La risposta è che, vista dal Fmi, la crescita attuale appare soprattutto di natura ciclica e, in questa sua ciclicità, sarebbe ora ai massimi tanto che se ne può vedere il declino e la fine: abbiamo ossigeno al massimo per due anni; nel frattempo occorre trovare una soluzione. Naturalmente il Fmi può sbagliare, è successo altre volte, ma le sue previsioni sono basate su dati solidi e non si contestano soltanto con battute, occorre avere ottimi argomenti. In particolare, i Paesi avanzati, nel loro complesso, dopo un incremento del prodotto lordo da un insufficiente 1,7 per cento nel 2016 sono passati al 2,3 per cento nel 2017 – un valore pari a circa l’1 per cento per abitante, ossia tenendo conto della crescita della popolazione – rimarranno su quest’insufficiente velocità nel 2018 e poi la crescita, a meno di difficili politiche, sembra destinata a rallentare nel 2019, tornando, per il Giappone, la Germania e l’Italia, molto vicina ai livelli insufficienti del 2016. Ci troviamo davanti a una «crescita fredda», fredda come la neve di Davos e questo dovrebbe soprattutto preoccupare gli europei: in gran parte dell’area dell’euro la frenata comincerà già quest’anno e entro il 2019 non risparmierà nessuno dei grandi. Dalla solidissima Germania con il suo nuovo governo (dal 2,5 al 2,0 per cento) il rallentamento toccherà tutta l’Europa Occidentale, compreso il Regno Unito (dall’1,7 all’1,5 per cento). E l’Italia? Purtroppo secondo queste previsioni, ci muoveremo più degli altri a un passo di lumaca e perderemo, entro il 2019, circa un terzo della nostra velocità di crescita, passando dall’1,6 per cento all’1,1 per cento. E se le previsioni si realizzeranno, diminuirà ancora l ‘ « i n c l u s i o ne»: i benefici di una ripresa m a g r a a n dranno, ancor a p i ù d i quanto succede oggi, a una parte ristretta della popolazione. Non a caso, il nuovo «indice di sviluppo inclusivo» – un inter e s s a n t e strumento di analisi econom i c a , n at o p r o p r i o a l World Economic Forum di Davo s , c h e potrebbe sostituire il Pil – già ci vede nel 2017 fanalini di coda al 28 o posto tra i Paesi avanzati, dopo la Spagna e prima della Grecia. Queste previsioni fredde arrivano nel corso una campagna elettorale già molto calda nella quale l’incremento della crescita è invece dato per scontato e di fatto si discute soprattutto su come distribuire il maggior prodotto futuro considerando cosa certa che vivremo in un ambiente dinamico e ottimista. Forse faremo meglio a seguire il consiglio di Lagarde che, nella stessa conferenza stampa, ha citato un detto di John F. Kennedy: «Il tempo giusto per riparare il tetto è quando il sole splende». Le forze politiche italiane, al contrario, sembrano progettare sempre nuove stanze senza preoccuparsi per il tetto.
La Stampa.
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