La Cina agita i suoi mari e Taiwan

Manlio Graziano

 

La scintilla capace di fare esplodere le tensioni internazionali può scoccare ovunque, anche molto lontano dall’epicentro, come ha dimostrato la Prima guerra mondiale (la scintilla a Sarajevo, l’epicentro sul confine franco-tedesco). Un fronte aperto è il Medio Oriente (anche se è improbabile che scoppi qui, perché gli Stati Uniti se ne sono di fatto ritirati); un fronte di questi giorni è l’Ucraina (qui il diavolo sta nel «dettaglio» di come venirne fuori in modo che tutti possano dire di avere vinto). Oltre all’Ucraina e al Medio Oriente, ci sono molti altri punti caldi delle relazioni internazionali (basti pensare ai numerosi focolai in Africa); ma il più hot, il vero epicentro, si trova nei mari di fronte alle coste cinesi. E la ragione è la travolgente ascesa economica, politica e militare dell’Impero di Mezzo. Da alcuni anni, tra gli specialisti, si fa un gran parlare della nine-dash line, la linea dei «nove tratti» che delimiterebbe, secondo Pechino (ma anche secondo Taipei), le acque territoriali cinesi includendo tutto il Mar Cinese meridionale, comprese parti delle acque territoriali del Vietnam, delle Filippine, della Malaysia e del Brunei: qui la Cina è presente nell’arcipelago delle Paracel (rivendicate dal Vietnam) e vorrebbe la totalità delle isole Spratly, dove ha costruito basi militari, innescando una potenziale escalation bellica ed esponendo l’intera area ai rischi di incidenti fortuiti. Quella frontiera unilaterale, rigettata dalla giustizia internazionale, viene considerata una prova dell’aggressivo espansionismo di Pechino. Pochi però sanno che quella linea (con due tratti in più) era stata resa pubblica per la prima volta dal governo di Chiang Kai-shek nel 1947, senza opposizione da parte dei suoi alleati di allora, Usa e Regno Unito. Pochi sanno che la Repubblica popolare l’ha adottata fin dal 1952 (con due tratti in meno, «regalati» al Vietnam del Nord). E, anche tra gli specialisti, molti si sono accorti della sua esistenza solo nel dicembre 2015, quando Pechino ha sostituito la carta ufficiale «orizzontale» del Paese con una carta «verticale», in cui tutti i nove tratti apparivano chiaramente fino, a sud, di fronte alle coste del Borneo.

A nord, quella linea tocca Taiwan, l’«isola ribelle» che i dirigenti di Pechino annunciano di volere reintegrare alla madrepatria con le buone o le cattive. Anche in questo caso, non c’è niente di nuovo: nella Dichiarazione del Cairo (1943), Stati Uniti e Gran Bretagna avevano riconosciuto alla Cina la sovranità sull’isola, poi confermata a Potsdam (1945). Alla fine della guerra tra i comunisti di Mao Zedong e i nazionalisti di Chiang Kai-shek (1949), scrive Paul Kennedy, «molti, nell’amministrazione Truman, disgustati, consideravano con disprezzo il governo di Taiwan e stavano pensando di riconoscere il regime comunista di Mao», compreso il suo diritto a riprendersi l’isola. Quei propositi saranno abbandonati allo scoppio della guerra in Corea, quando Taiwan divenne la «portaerei inaffondabile» di Douglas MacArthur. Nel processo di riavvicinamento degli Usa alla Cina, nel 1972, la questione di Taiwan fu risolta con un compromesso: Pechino accettava, almeno temporaneamente, lo status quo e Washington riconosceva il principio di «una Cina», di cui Taiwan fa parte, aggiungendovi il ritiro dall’isola di «tutte le forze e le installazioni militari».

Da allora, Pechino non ha mai cessato di reclamare la «riunificazione», e quasi tutti i Paesi (solo 13 hanno oggi relazioni diplomatiche con Taipei) hanno riconosciuto il principio di «una Cina». Inoltre, nel passato, le relazioni tra Pechino e Taipei sono state anche più aspre di quanto non lo siano oggi, con scontri militari nel 1958 e nel 1965 (quando fu Taiwan a volere riconquistare la Cina continentale!). Il leader comunista Jiang Zemin, presentato oggi come una «colomba» opposta al «falco» Xi Jinping, organizzò nel 1996 delle esercitazioni missilistiche nello stretto per tentare di influenzare le elezioni a Taiwan; e un’altra presunta «colomba», il suo successore Hu Jintao, rafforzò il dispositivo missilistico, accompagnandolo con nuove minacce di azione militare.

Ma allora, se la linea dei nove tratti e il nodo Taiwan sono due questioni aperte da più di settant’anni, perché sono diventate, oggi, le più serie minacce alla «coesistenza pacifica» tra le grandi potenze?

La risposta, si diceva, sta nello sviluppo della Cina che, nel 1972, pesava economicamente appena più del Belgio e oggi è la seconda potenza mondiale. Da un lato Pechino vorrebbe godere di margini d’azione corrispondenti al suo peso economico; dall’altro Washington vuole evitare che la Cina le passi davanti. Nel suo primo discorso dell’Unione, nel 2010, Barack Obama era stato inequivoco: «Io non accetto un secondo posto per gli Stati Uniti». Siccome nessuna delle due potenze può e vuole recedere, è inevitabile che le tensioni si acuiscano.

Per la Cina, il controllo dei mari davanti alle sue coste è questione vitale. Tra il 70 e il 90% (secondo le fonti) del suo commercio passa di lì, anche se i progetti della «Nuova Via della Seta» puntano a ridurre quella percentuale. Il problema è che quei mari sono presidiati da una doppia catena di isole controllate da rivali reali o potenziali della Cina — e Taiwan ne è, per così dire, il fulcro.

Gli Stati Uniti affermano che il controllo indiretto e, in certi casi, diretto di quelle isole sarebbe una garanzia della «porta aperta», cioè della libertà di circolazione delle merci; ma proclamarsi guardiani di una porta significa anche arrogarsi il diritto di chiuderla quando si vuole, mantenendo quindi un’utile spada di Damocle sospesa sopra la testa di Pechino.

La soluzione del problema è tutt’altro che semplice; sembra però che Pechino faccia di tutto per complicarla. La stretta autoritaria a Hong Kong ha messo fine alla finzione del principio «un Paese, due sistemi» che avrebbe dovuto garantire a Macao (ex territorio portoghese), a Hong Kong (ex colonia britannica) e a Taiwan la continuità dei loro regimi politici e giuridici. Nei sondaggi per le elezioni presidenziali del 2020 a Taiwan, il Kuomintang (procinese) aveva nel marzo 2019 quasi venti punti di vantaggio sul Partito democratico progressista (Dpp, anticinese); in giugno, nel pieno delle manifestazioni a Hong Kong, il Dpp è passato davanti; e nel novembre 2020, la candidata Tsai Ing-wen si è imposta con uno schiacciante 57%. L’azione repressiva di Pechino a Hong Kong ha moltiplicato i suoi avversari a Taiwan.

Non basta. Più la Cina si fa aggressiva di fronte alle sue coste (vi sono dispute aperte, soprattutto col Giappone, anche nel Mar Cinese orientale), più il fronte anticinese si consolida. I Paesi della regione, come pure l’India, riluttano a farsi reclutare nell’alleanza contro Pechino auspicata da Washington, per evidenti ragioni economiche, ma anche per non farsi trascinare in uno o più possibili conflitti; ma è chiaro che più la Cina si mostra aggressiva, e meno le loro reticenze saranno salde. Come a Taiwan e a Hong Kong, Pechino si sta costruendo nella regione una rete di nemici.

Gli americani lo sanno, e ne approfittano, surriscaldando gli animi. In ottobre, Biden ha dichiarato che «difenderà» Taiwan se la Cina attacca. E a Taipei qualcuno potrebbe pensare di avere le spalle coperte per proclamare l’indipendenza. La Prima guerra mondiale dimostrò che le crisi militari possono esplodere ovunque; ma ha anche dimostrato che l’escalation della retorica, degli ultimatum e della mobilitazione delle truppe può avere effetti che nessuno aveva previsto, né auspicato.

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