Cecilia Alemani svela la mostra che racconta i 125 anni dell’istituzione veneziana. Tra politica, crisi, proteste e scandali che hanno segnato non solo la storia dell’arte
di Dario Pappalardo
La Biennale di Venezia non chiude per pandemia. Se la rassegna dedicata all’architettura è rimandata al 2021 e quella dell’arte al 2022, il 29 agosto il Padiglione centrale ai Giardini aprirà lo stesso per ospitare (fino all’8 dicembre) la mostra Le muse inquiete, non “inquietanti” come quelle di de Chirico. Ovvero una “Biennale di Biennali”: la storia dell’intreccio tra l’istituzione nata nel 1895 e le crisi del mondo che, in 125 anni, si sono affacciate inevitabilmente nella manifestazione in laguna. Sala dopo sala, ecco fascismo, guerra fredda, contestazione, totalitarismi, censure. I display rimandano video di performance e di proteste; le teche espongono documenti e reperti di un tempo in cui l’arte e la politica erano tutt’uno. C’è il telegramma di Gianni Colombo e Marcello Morandini che, nel 1968, ritirano la partecipazione a causa della «situazione di violenza morale da parte dei movimenti protestatari e di violenza fisica da parte della polizia».
C’è Pasolini. C’è l’edizione del 1974, solidale con il Cile oppresso dalla dittatura. Ci sono gli artisti del Living Theatre che invadono, letteralmente, piazza San Marco; ci sono i film e la musica. Per la prima volta le sei discipline della Biennale si ritrovano insieme in un’esposizione che è un racconto di storia collettiva. Cecilia Alemani, direttrice della prossima mostra d’arte, ha coordinato il progetto, unendo le forze con i colleghi Alberto Barbera (cinema), Marie Chouinard (danza), Ivan Fedele (musica), Antonio Latella (teatro) e Hashim Sarkis (architettura). L’Asac, l’Archivio storico della Biennale sotto la responsabilità di Debora Rossi ha fornito tutti i materiali – per lo più inediti – e, come annunciato dal nuovo presidente della Biennale Roberto Cicutto, sarà trasferito accanto alle Corderie dell’Arsenale: guadagnerà spazio e accessibilità. Perché in tempo di crisi l’arte la fa la storia. «L’archivio è la settima musa – dice Alemani, collegata via Zoom dal Connecticut –.
Questo è il momento di imparare dal passato senza alcun intento reazionario». Sul tavolo ha decine di cataloghi di ieri.
Lei che cosa ha imparato dalle “Muse inquiete”?
«Per la prima volta ho visto la Biennale in una prospettiva diacronica. Ogni edizione non cade nel vuoto. Fa parte di un flusso temporale. La storia dei padiglioni nazionali è geopolitica. Nel 1942, quelli dei “nemici” di allora – Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia – furono usati per l’esposizione delle forze armate fasciste. Tra il ’43 e il ’46, Cinecittà, per evitare le bombe, sposta i suoi studios proprio nei padiglioni di Venezia. Ricordiamoci che la Biennale è passata attraverso crisi ancora più serie del virus come la dittatura e la guerra. È nelle arti che la società trova nuova energia e forza per riaprire tutto».
La Biennale riparte dalla storia.
Anche l’arte deve fare così?
«L’impressione è che l’arte finisca spesso in un vortice frenetico, ma gli artisti guardano costantemente alla storia: ne sono consapevoli».
Lei vive a New York, dove dirige la High Line. Negli Stati Uniti si sta tendendo a cancellare la storia, più che a comprenderla: si abbattono le statue.
«L’America affronta una situazione estrema. C’è una polarizzazione in ogni ambito, dalla politica alla cultura. Anche la sinistra più progressista è stata colpita: non tiene più conto delle sfumature. Si censura e ci si autocensura. Il processo è avvelenato, ma questo Paese per cambiare ha bisogno di fratture profonde. Sono a favore dell’abbattimento delle statue dei confederati schiavisti, che per altro furono innalzate dopo la guerra di secessione. Dobbiamo capire che cosa c’è nelle nostre piazze. Al tempo stesso, però, l’estremizzazione della cancel culture ridotta a dibattito tranchant da social media è pericolosa come il conformismo che produce. Un curatore deve essere libero».
Le mostre di domani, Biennale compresa, saranno organizzate per quote di “minoranze” da rappresentare?
«Se parliamo di quote rosa, sono a favore. La parola non mi piace, ma porterà al cambiamento. Studiando i 125 anni di storia della Biennale, ho imparato che la rappresentanza femminile è appena dell’1%.
Sfogliando i cataloghi, trovo solo nomi maschili. E non parlo del 1895, ma anche degli anni Settanta. L’arte non si fa con le percentuali, però, quando vedo che in Italia si organizzano ancora mostre tutte di uomini, rimango scioccata. Negli Stati Uniti si verrebbe licenziati per questo».
Guardando il materiale di archivio, ci si rende conto anche che prima arte e politica erano profondamente legate.
«La Biennale stessa era politica: dagli anni Trenta è fascista. Lo statuto dell’ente non è cambiato fino al 1973, ma anche allora le mostre erano politicizzate. Nel consiglio di amministrazione c’erano i rappresentanti dei partiti e dei sindacati. Tutto cambia quando, negli anni Novanta, la Biennale diventa Fondazione con il presidente Paolo Baratta. Intanto, con la globalizzazione sono cambiati anche il mondo e la società. Non serve dichiararlo, ma con i suoi 90 padiglioni questa manifestazione resta lo specchio geopolitico delle dinamiche del pianeta. L’ultima Biennale più apertamente politica è stata quella del 2013 di Okwui Enwezor, che ha riletto Il Capitale e la storia attraverso l’arte contemporanea».
A Okwui Enwezor, scomparso l’anno scorso a 55 anni, così come a Maurizio Calvesi, Germano Celant e Vittorio Gregotti, curatori di Biennali passate, conferirete i Leoni d’oro alla memoria.
«Per il mio mestiere di curatrice sono vicinissima a Okwui; la sua Documenta del 2002, quell’energia, mi hanno cambiato la vita. Torno sempre a quel catalogo per metodo e passione. Calvesi è stato un personaggio ricorrente nella storia della Biennale, una figura di intellettuale d’altri tempi e, senza Gregotti, nel 1980, non sarebbe nata la Biennale Architettura. Ho visto Celant a New York per l’ultima volta a marzo. Gli dobbiamo molto.
Istituzionalizzando l’Arte Povera, ha capito che nell’Italia degli anni Sessanta c’era un fermento che andava catturato. La mia ambizione è quella di imparare da questo passato senza arroganza, avendo la forza di immaginare il futuro delle arti e i linguaggi che si affermeranno».
I nuovi linguaggi hanno fatto anche scandalo nella storia della Biennale. Una sala della mostra è dedicata a questi “shock”.
«Sì, ovviamente ci saranno Jeff Koons e Cicciolina. Ma anche Il Supremo convegno, il quadro di Giacomo Grosso del 1895 che raffigurava cinque donne nude in posa sulla bara di un dongiovanni. All’epoca fu censurato dalla Chiesa, chissà se in questi giorni si potrebbe esporre…».
A causa della pandemia e dello slittamento al 2022, lei sarà la prima direttrice ad avere più di due anni per pensare la Biennale. Quanto quello che è accaduto influenzerà e cambierà la sua mostra?
«Ho più tempo, certo, ma il mondo sta cambiando a una velocità maggiore. Da quando sono stata nominata, a gennaio, ho già pensato tre progetti diversi. Ora ho deciso di schiacciare il tasto “pausa” e di concentrarmi solo sul dialogo con gli artisti. In questi mesi mi collego con loro via video, “visito” gli studi, le opere e soprattutto insieme parliamo come non abbiamo mai fatto. So che quella del 2022 non sarà la mostra del Covid: non ci sarà alcun intento illustrativo. Nessuno vorrebbe visitare la Biennale del coronavirus.
Qualcosa sta accadendo: c’è un nuovo fermento creativo. Confido in linguaggi artistici inediti e rivoluzionari. Ma, soprattutto, spero di poter tornare presto a vedere l’arte con i miei occhi, senza la mediazione di uno schermo».