Tanto sterminato è stato l’universo creato da Jannis Kounellis (Pireo, 1936 – Roma, 1917) quanto conformista e tendenziosa, è sembrata la critica generalista che lo ha rinchiuso nella gabbia dell’Arte Povera che, certo fu una sua inconfutabile rotta, ma interconnessa alla sua rizomatica scia creativa e al suo esteso pensiero.
L’INUSUALE LIBRO Autoritratto come Odisseo. Azioni di Jannis Kounellis dopo il 1960 (Quodlibet, pp.160, euro 16) scritto da Sergio Risaliti, direttore del Museo del Novecento di Firenze, fuoriesce dalla relatività analitica, ricomponendo l’attività performatica del giovane Kounellis ed evitando di perdersi nel suo polimorfico oceano creativo. Ne viene fuori una illuminante lettura che recupera l’attitudine azionista kounellesiana. Il saggio, infatti, si attorciglia accuratamente intorno al territorio comportamentale, poco analizzato e troppo superficialmente liquidato e racconta l’eclettismo caustico – nonché la malia poetica – del nostro mirabile artista, che aveva abbandonato il natìo Pireo nel 1956, per ricollocare i suoi miti interiori in Italia.
LA POESIA CIVILE che trascende, ancor oggi, dalle sue opere è il sedimento di un vivere e di un prendere posizione nella storia contemporanea. Le performances degli anni ’60 e ’70, che descrivono il suo peregrinare sperimentale, fondono passato e presente, marxismo e mito. Il saggio, senza indugio alcuno, segue il percorso iniziatico fin da Senza titolo (1960) alla Galleria Tartaruga in cui Kounellis dipinge le pareti con numeri e lettere alfabetiche e, infine, comincia a cantare. Poi, arriva un altro Senza titolo (1967) in cui l’artista è posto immobile – e di spalle – all’interno di un grande parallelepipedo di legno aperto sul davanti mentre si guarda allo specchio.
Per Jannis Kounellis era fondamentale «uscire dal quadro perché solo in tal modo si possono ritrovare le intese e ristabilire una relazione dialettica con lo spazio», dunque era un atto liberatorio. Così nel 1973 (Senza titolo), alla Galleria La Salita concepiva una sala allestita con un tavolo su cui era disseminato il calco di una statua maschile antica e dove era seduto l’artista, con il volto coperto da una maschera (ancora un calco di una testa di Apollo di età classica), mentre alla sua destra un flautista eseguiva un brano di Mozart. Un corvo impagliato, appollaiato sul tronco della statua, completava la scena.
L’ANTICA E ANCESTRALE Grecia veniva risimbolizzata nei frantumi della statua, nella maschera e nello spaesamento scenico. Ciò che sovviene immediatamente è la frantumazione del corpo statuario, dunque della cultura, che si accompagna alla morte del corvo, simbolo di intelligenza e di leggerezza. Una lettura laica induce a una sensazione di «disastro» che rimanda, ovviamente, alla rivoluzione fallita del Sessantotto (come già aveva intuito Germano Celant) e, dunque, alla dissoluzione delle sue utopie nonché a una presa di posizione della realtà.
ALTRE E NUMEROSE performance vengono esperite da Kounellis che, nel saggio di Risaliti, sono sapientemente analizzate. Come Senza titolo (1970) a Palazzo Ricci a Montepulciano, la bellissima Da inventare sul posto realizzata per l’edizione di Documenta 5 del 1972, e Senza titolo (Motivo africano) del 1970, in cui una donna incinta è seduta su una sedia, nuda, attraversata da insetti sul seno e il ventre.