Berengo Gardin La fotografia dei miei 90 anni

La Roma occupata dai nazisti. La lite con Doisneau. I film di cowboy visti con Sartre. L’ostinata resistenza al digitale Confessioni di un maestro che è ancora a caccia di immagini
di Michele Smargiassi
Del suo buen retiro di Camogli, una casona color rosa che sbircia uno dei due mari della sua vita (l’altro bagna Venezia), Gianni Berengo Gardin ha fotografato ormai ogni pianta del giardino, ogni modellino di barchetta della sua collezione, ogni piatto dipinto della moglie Caterina, gran cuoca. «Potrei anche scattare senza pellicola», si prende in giro. Il fatto è che, a novant’anni da compiere il 10 ottobre, questo patriarca del bianco-e-nero non ha nessuna intenzione di togliere il dito dal bottone della Leica.
Nessuno è mai stato capace di imporglielo. Neanche i tedeschi.
«Bastian contrario tutta la vita», dice, ma si contraddice con quel modo mite di parlare, arrotando le R come sa solo lui. Non ama le interviste, «sono il contrario di un chiacchierone, sono troppo orso», si scusa, eppure alla figlia Susanna ha appena dettato un’autobiografia piena di rivelazioni e sorprese. Ma l’ha intitolata In parole povere (Contrasto editore) perché lui ha sempre preferito la ricchezza delle immagini.
Insomma, dobbiamo ringraziare i nazisti se abbiamo un maestro italiano della fotografia?
«Nel 1944 vivevamo a Roma, i tedeschi avevano dato ordine di consegnare armi e macchine fotografiche e mamma mi diede la sua Ico a soffietto da portare al comando. Avevo quattordici anni, pensai: se una fotocamera è pericolosa come un fucile, deve avere qualcosa di speciale, allora prima di consegnarla comprai tre rullini e fotografai tutto quello che vedevo. Peccato, ho perso quei negativi in un trasloco. Ma non erano un granché».
Si è rifatto abbondantemente.
«I miei volevano che studiassi ma studiare non mi piaceva, volevo fare cose con le mani, la macchina fotografica è anche una cosa manuale, non è solo intellettuale, è uno strumento da artigiano, da contadino, per questo non mi piace sentirmi dire artista».
Come posso definirla allora?
«Fotografo non basta? Dica narratore. Ho raccontato quel che ho visto. Non mi piaceva studiare ma leggere sì, ho amato i grandi americani, Faulkner, Steinbeck, Dos Passos, nel dopoguerra la mia generazione amava tutto quel che era americano, il cinema, i gesti, la gomma da masticare, e naturalmente la fotografia».
Però poi fu in Francia che fiorì la sua vocazione.
«Scappai a Parigi nel 1953. E feci benissimo. Quando penso che avrei potuto fare l’albergatore o il venditore di perline di vetro nel negozio di famiglia a Venezia, o peggio ancora il piazzista della Olivetti dove avevo vinto un concorso, ho ancora un brivido di terrore. Parigi l’avevo immaginata nei romanzi di Simenon. Ed era piena di grandi fotografi».
Con Robert Doisneau litigò.
«Non mi piaceva che mettesse in posa i suoi soggetti. Glielo dissi e mi tolse il saluto. Il mio vero grande amico fu Willy Ronis».
Mentre con Jean-Paul Sartre scappava nei cinemini a vedere i western.
«Lo conobbi nel salotto di una signora, frequentato da scrittori, pittori, attori. Lui era già famoso ma non idolatrato come oggi. Io ero in gran soggezione ma ebbi il coraggio di dirgli che amavo il cinema, mi propose di andarci assieme. Chissà che noia di film d’essai mi costringerà a vedere, pensai. Mi portò a vedere un film di cowboy. Due mesi dopo ci rivedemmo, e di nuovo cowboy.
Così per tre o quattro volte. Si vede che per lui erano rilassanti. Forse non aveva amici intellettuali a cui piacessero i film di cowboy».
Nelle sue foto c’è una filosofia del mondo?
«C’è il mondo. Io sono quello che lo guarda. Sono sempre stato di sinistra ma non ho ideologie, cos’era il comunismo me lo insegnarono gli operai dell’Alfa che fotografavo a Milano, cos’è la giustizia e la dignità lo vidi coi miei occhi là dove mancavano, nei manicomi in cui Franco Basaglia mandò Carla Cerati e me…».
Per quel celebre libro, “Morire di classe”, che Einaudi regalò a tutti i parlamentari per sollecitare la legge Basaglia, appunto.
«Ne vado fiero, ma il lavoro a cui tengo di più è uno che ha avuto meno risonanza, quello sugli zingari. Gente meravigliosa, umanità profonda e perseguitata».
Poi c’è “Dentro le case”: un monumento di antropologia visuale sul rapporto fra l’uomo e l’abitare.
«Con Luciano D’Alessandro stabilimmo di fotografare gli italiani negli interni delle loro case, scegliendole secondo l’esatta proporzione Istat, tante di poveri, tante di ceti medi e di ricchi.
Volevamo che fosse un documento».
Perché ha preferito i libri ai giornali?
«Ma è il viceversa! Sono un fotografo da libri perché i giornali non mi hanno fatto lavorare! Anche se risulto fra i primi tre fornitori di immagini del Mondo di Pannunzio… Io nasco nel mondo dei fotoamatori, dove la fotografia singola, iconica, alla Cartier-Bresson, era il miraggio di tutti».
Anche il suo… L’automobile sul lago… Il bacio sotto il portico… Il vaporetto…
«Sì, ne ho fatte anche io. Ma quando comincio a scattare in una situazione, penso sempre: chissà se me ne vengono una quarantina di buone per farci un libro…».
Buone o belle?
«Buone! Quando Ugo Mulas mi mostrò le sue foto io ebbi la cattiva idea di commentare: come sono belle! Lui mi trattò malissimo: se dici ancora bello, ti caccio a pedate».
Come si riconosce una fotografia buona?
«Quando racconta bene, ma senza inventare. Io cerco di fotografare sempre con lo spirito e l’entusiasmo del fotoamatore, ma di quel mondo non mi piacevano due cose: la prima, quell’atteggiamento da mammoni che si rifugiano sotto le gonne dell’arte…».
La seconda?
«Il culto dello strumento. Un giorno, in una di quelle gite da fotografi, cominciò a piovere, la scena era bellissima ma tutti corsero a mettere al riparo le loro macchine. Per fargli rabbia, misi per terra il mio costosissimo obiettivo Telyt 200/4 e ci pisciai sopra».
Proprio lei? Che ha dedicato un libro alla sua Leica?
«E alle altre… Sono un marito fedele con qualche tradimento.
Non bisogna farsi un mito della macchina, se devo fotografare la Madonnina sul Duomo prendo la Nikon col tele. Ma la maggioranza del mio lavoro sì, l’ho fatto con la Leica e il 35 millimetri».
E in bianco e nero.
«Ho fotografato anche a colori, soprattutto per i libri del Touring Club. Ma quando sto per scattare continuo a dirmi: se questa foto viene meglio a colori, non la faccio. Perché vorrebbe dire che mi ha colpito solo il colore, che sto fotografando un colore e non il soggetto».
E in pellicola.
«Non ho nulla contro il digitale. Ha alcuni vantaggi. Ma produce immagini troppo precise, e fa venire la tentazione di manipolarle. Da vent’anni mi bombardano di critiche per questa scelta, alla fine ho deciso semplicemente di rispondere: sono un adoratore di Santa Negativa, lasciatemi la mia fede».
Però, quel timbro polemico dietro tutte le sue foto, «Vera fotografia, non corretta, modificata o inventata al computer»…
«Così tutti capiscono che fotografo sono, che lingua parlo. Il mondo non lo decidi tu com’è. Le mie foto più riuscite sono merito del soggetto. Dopo lo scatto, non c’è più molto da fare, qualche correzione di luce e contrasto, ma basta. C’è un mito, che le foto migliori siano quelle che ti costano più fatica ed elaborazione, ma spesso è vero il contrario, le foto vengono, un fotografo deve accettarle».
Ma il mondo non si offre da solo, va scoperto…
«I miei lavori sono tutti sociali. Era sociale e polemico il lavoro sulle Grandi Navi a Venezia, ma sono sociali anche i miei paesaggi. Per fotografia sociale la gente intende i morti di fame, ma io faccio fotografia sociale anche quando fotografo i principi Torlonia col cameriere. In questi giorni sto facendo un libro…».
Un altro?
«Il duecentosessantunesimo. Su San Fruttuoso, qui vicino, è un posto meraviglioso con una antica abbazia, ma io entro anche nelle case e fotografo chi ci vive».
Perché per due volte rifiutò di entrare in Magnum? Bastian contrario?
«Me lo propose Koudelka, poi Erwitt. Ma io non so l’inglese, poi non avevo capito bene le regole e mi spaventava l’idea di essere tenuto a fare cose che non volevo fare… Temevo che fosse faticoso essere sempre all’altezza degli altri, non poter avere momenti di debolezza e magari fare cose meno impegnative».
Un solitario?
«Ho sempre lavorato senza assistenti, senza apparati, in casa mia. Ho dovuto rinunciare a certi incarichi, ho guadagnato meno, ma ho anche speso meno e mi sono sentito libero».
C’è ancora posto in questa epoca per il suo modo di fare fotografia?
«Forse no, ma poi vedo che alle mostre dei grandi fotografi del reportage del Novecento c’è la fila fuori, qualcosa vorrà dire».
Un grande fotografo suo amico e maestro, Mario Dondero, disse che avrebbe voluto essere ricordato come un uomo che ha voluto bene alla gente. Lei come vorrebbe essere ricordato?
«Come un uomo onesto in tutto, anche nelle fotografie».
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